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Kleg

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Le storie del Kleg

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Kleg 4 - Fuoco fatuo


Sto leggendo la saga The first law, di Abercrombie. E tra i suoi personaggi ci sono un inquisitore storpio insieme a due "Practical" mascherati: Severard e Frost.

Assomiglia a qualcosa di vostra conoscenza?

Tipo a una squadra capeggiata da "Il Teschio" e composta da due agenti mascherati dai nomi: Clarion e Belthar.

Uff.

In ogni caso se conosci sia i racconti del Kleg sia quelli di Abercrombie potrai notare alcune differenze. Ad esempio Clarion NON è Severard.

Severard è un personaggio pericoloso e letale. Clarion con in mano un coltello riuscirebbe solo a essere una minaccia per una nonnina in cariola che sta facendo il pisolino pomeridiano.
A Severard interessano i soldi (almeno così mi è sembrato, ho solo finito il primo libro della saga), a Clarion interessa avere rispetto e ammirazione, è un personaggio più insicuro.

La stessa struttura della squadra è gestita in maniera diversa, i ruoli di Ombra e Pugnale sono più specializzati.

Il Teschio è più misterioso di Glotka. Tra l'altro ancora si sa poco niente di lui; chi  segue i racconti lo ha visto come ologramma nel primo capitolo e basta, quindi eviterò spoiler.

In ogni caso la somiglianza c'è. E se a qualcuno interessa, alla fine dei racconti analizzarò le differenze tra le due associazioni (lo farò anche se non interessa a nessuno, giusto per esercizio, ma se interessa gli do priorità).

Kleg statistics:
Azione, malvagità e intrigo sono le tre colonne portanti di questi racconti (pensavo di aggiungere anche raccapriccio e volgarità, ma questi ultimi due sono più abbellimenti che parti principali). I valori andranno da 1 (contenuto moderato) a 5 (contenuto estremo).
Ecco le valutazioni per questo racconto: fuoco fatuo.
Azione: 4.
Malvagità: 3.
Intrigo: 2.
Se hai già finito il racconto magari dimmi anche se sei d'accordo sulla valutazione; nel caso la metterò a posto per aiutare i prossimi interessati.

Molta azione e molto intrigo. Spero che le scene abbiano il giusto ritmo per permetterti di seguirle per bene, fammi sapere se alcune parti non ti sono chiare che provvedo a rianalizzarle.

Il racconto di oggi è un po' più lungo del solito. Cerco sempre di farli più corti e ogni volta mi vengono più lunghi. Bo', sarà una cospirazione stellare.

Fuoco fatuo sviluppa le relazioni tra personaggi già visti finora ed è ambientato a poche settimane dalla fine del racconto precedente. Moina è in panchina dopo la batosta dell'ultimo scontro, ma ci sono tutti gli altri.

A questo aggiungiamo che la storia si lega molto al finale del racconto precedente, Impronte nella nebbia.

Quindi quello di oggi è il racconto che meno si porta a una lettura isolata. Dovresti riuscire comunque a seguirlo senza perdere il senso, ma ti consiglio di leggere prima gli altri.

Ah, salterà fuori una razza che secondo me non ti aspetti!

Direi che siamo pronti a partire. Come al solito sarebbe meglio scaricarli, e volendo stamparli o visualizzarli con il pdf.

O se preferisci

Ma volendo puoi cliccare sulla maschera e leggerli con il browser.

Kleg
Clarion è davvero così malvagio? Scoprilo cliccando sulla maschera per iniziare subito il racconto.
Adesso non attendo altro che le tue personali opinioni.

Fuoco fatuo 

Clarion appoggiò la pala al bordo della buca, si asciugò il sudore sul mento e rilesse il nome sulla lapide: Dulam Dan.

Il rumore della festa e delle canzoni arrivava da oltre il muro di pietra del cimitero. L’odore di terra smossa si mischiava con la puzza di carogna e di sudore.

Le lapidi sporgevano come denti cariati e le ombre tremolavano alla luce della lanterna.

Clarion afferrò il manico di legno e lo conficcò a terra la lama del badile premendo col piede. Sollevò. Un’altra palata di terra si accumulò sul bordo.

Un sibilo. Una fiammata blu scaturì dal terreno, davanti a un’altra lapide.

Clarion sbuffò e si tolse la maschera di cuoio: non riusciva più a sopportare il caldo, per non parlare della sensazione del fango che gli entrava nei guanti senza dita.

Le tenebre avanzavano: mancava poco a mezzanotte, maledizione.

Fissò la terra, come se fosse un avversario: c’era dentro fino ai fianchi e ancora non bastava.

Un colpo. Un altro colpo. Un altro ancora. Il cumulo di terra cresceva.

Tonk. La vanga vibrò, sbattendo su qualcosa di solido.

Clarion la alzò e abbassò di nuovo.

Tonk.

Sì. Finalmente!

Le dita di Clarion spazzarono il terriccio fino a mostrare i bordi della bara.

Piantò la vanga e fece leva: il legno scricchiolò. Aumentò la forza e il coperchio si spalancò, sbattendo sul lato della buca.

La puzza di carogna lo travolse come una mandria di tori in corsa... Che iniziarono un rodeo nel suo stomaco.

Clarion saltò fuori e si chinò; una mano a terra, l’altra a premere sulla pancia: vomitò.

Tirò un pungo sul terreno, lasciando l’impronta sulla terra smossa. Altro tempo sprecato. Prese una boccetta dalla borsa; centellinò due gocce di liquido su un fazzoletto e lo portò al naso.

Respirò una volta, con attenzione. L’odore di etere invase le narici e uno stato di stordimento lo avvolse: gli odori si allontanarono fino a diventare indistinti.

Clarion tornò dentro la buca con un tonfo. Scivolò e cadde, battendo la testa contro il bordo della bara. Si rialzò, portando una mano sul polpaccio del cadavere. Trattenne una smorfia: forse l’etere non era stata la scelta migliore.

Clarion provò a spostare il braccio del cadavere, ma era bloccato. Appoggiò il ginocchio sullo sterno del morto e tirò: scricchiolò senza cedere.

«Bah.» Clarion abbandonò il braccio.

Al diavolo la cautela. Estrasse un pugnale e strappò la giubba dal davanti. Portò alla luce il torace grigiastro e una manciata di peli scuri.

Clarion prese il cadavere per il braccio e lo girò, buttandolo di faccia sul fondo della bara.

Riprese il pugnale e tagliò il retro della giubba, senza badare al viscidume che gocciolava dalla bocca del morto.

Trovato!

Tre ferite sulla schiena: fori verticali, lunghi quanto un pollice. Clarion riprese la maschera e la indossò.

Belthar. Guarda. Clarion usò i poteri della maschera per trasmettere il messaggio telepatico, insieme all’immagine mentale della scena.

Come mai hai interrotto il contatto, Cla?

Ti giro il cadavere così vedi anche davanti. Un rivolo di liquido scuro uscì dalle labbra per colare sulla guancia del morto.

La descrizione corrisponde. Trasmise Belthar. Puoi pulirgli la faccia?

Vaffanculo. Te e i tuoi scherzi di merda.

Io non scherzo sul cadavere di un collega. La mente di Clarion riconobbe la coscienza di Belthar che lo scandagliava. Etere. Ti fai anche durante le missioni adesso, Cla?

Clarion grugnì, prese il fazzoletto e pulì il volto del cadavere.

Allora? Trasmise Clarion.

Tre coltellate non fanno diventare neri gli occhi; ma non riconosco il sintomo. Forse lo hanno solo preso a pugni.

Mi hai fatto pulire per un cazzo? Clarion scagliò a terra il fazzoletto.

Hai scoperchiato la tomba di un collega, gli hai strappato i vestiti e lo sbatti in giro come se fosse un fottuto pupazzo. E adesso ti lamenti per...

Sono in ritardo, Belthar. Dimmi cosa devo fare e falla finita.

La sua famiglia è stata massacrata dagli Inquieti ad Arrensen. La mente di Belthar gli trasmise un ronzio di rabbia. Sua sorella è ancora dispersa: la stava cercando da...

Bla bla bla. Si è fatto ammazzare. Fine.

Un giorno potresti esserci tu lì dentro, Cla.

Parleremo un’altra volta dei doveri di colleganza, Belthar. Finiamo la missione ora.

Il ronzio della rabbia di Belthar ebbe un picco; poi si attenuò.

Il cadavere è ancora rigido? Trasmise Belthar.

Sì.

Forse allora sta dicendo la verità.

Anche il nome sulla lapide è confermato: Dulam Dan. Clarion saltò fuori dalla buca e riprese la vanga. Sei già pronto, Belthar?

Avevi detto mezz’ora. Te l’ho data.

Le voci cantavano una giga: la “venuta del massone”, quindi mezzanotte era passata.

Il coperchio della bara si chiuse con un rumore raschiante. Non starai dicendo che…

Il veleno è già in azione.

Porca troia, Belthar. Ti avevo detto di aspettarmi. Clarion prese a spalare la terra per ricoprire la buca.

No. Avevi detto che la seconda fase partiva dopo mezz’ora

Avevo detto che sarei tornato in mezz’ora e che…

Tic tic tic. Clarion. Se vuoi parlare con lei devi fare in fretta.

Sei solo un pezzo di merda!

Le braccia di Clarion aumentarono il ritmo; i palmi gli dolevano e i poteri della maschera acuivano la sensazione del legno scheggiato.

L’ultima palata di terra coprì la tomba. Clarion usò il retro della vanga per appiattire il terreno.

Corse verso l’uscita senza badare al rumore della ghiaia smossa; arrivò alla casa del becchino e appoggiò la pala al muro dove l’aveva presa.

Sporse la testa dal cancello e settò mentalmente la maschera sulla visione al calore. Una sagoma rossa nel buio, grugniva in posizione accovacciata: un vagabondo che cagava nel vicolo Clarion sbatté la mano aperta contro la pietra. Quella gente non aveva ritegno.

Si allontanò lungo il muro, saltò e si aggrappò: sollevò la testa per controllare. Strada libera.

Atterrò nel fango con uno splash e si addentrò nelle viuzze.

 

* * *

 

Le uniche luci uscivano dalla casa dove si stava dirigendo. Il rumore della festa arrivava da lontano mentre un gatto miagolava su un tetto. Per il resto solo altre due sagome di calore: entrambe nella casa. L’edificio era in malta e pietra di fiume.

Clarion si tolse la maschera, spalancò la porta ed entrò.

La donna sulla sedia aveva un’espressione stanca. Belthar teneva la spalla appoggiata a una dispensa e la fissava: gli occhi dell’assassino riflettevano la luce danzante del focolare.

«Guarda che bello.» La donna sollevò una conchiglia nel palmo aperto. «Me l’ha regalato Roger.»

Meno male. C’era ancora tempo. O forse quel bastardo di Belthar gli aveva mentito per mettergli fretta.

«Roger.» Dal tono di Clarion traspariva l’irritazione. «Sei stato davvero gentile.»

«La tua bellezza onora i miei occhi e fa bruciare il mio cuore, Sarabi.» Belthar fece un inchino. Chissà dove aveva imparato quelle maniere da damerino. «L’ho trovato in riva al mar Aureo, durante i miei viaggi.»

Sarabi sorrise. «Sei troppo...» La voce si ridusse a un miagolio; la mano sinistra andò al petto. «O per Arral. Cosa...» Sarabi deglutì; si chinò in avanti.

La conchiglia cadde a terra: zampe di crostaceo uscirono dal guscio e si agitarono per aria.

«E’ quello che penso?»

Belthar assentì e recuperò la conchiglia con la mano coperta da un guanto.

«Ci vuole solo aiutare!» Clarion strinse il pugno.

L’angoscia affiorò sul volto di Sarabi; annaspò come un pesce senza riuscire a parlare.

«A fare cosa, Filipp?» Il tono di Belthar era canzonatorio. «Caro collega scalpellino?»

«Non siamo scalpellini venuti per la festa.» Clarion si rivolse a Sarabi. «Ieri hai messo una denuncia in un pozzo nero. Siamo qui per controllare.»

«Siete della...» Sarabi inghiottì a vuoto. «Della polizia segreta?»

Clarion annuì.

«Sa che il suo padrone era uno del Kleg.» Gli occhi di Belthar persero la gentilezza; divennero minacciosi. «E adesso le hai anche fatto capire chi siamo.»

«Il suo padrone è morto: non c’è più nessuna identità da coprire.» Clarion aprì le braccia, alzando i palmi verso l’alto. «E senza di lei non l’avremmo mai trovato!»

«Questa se lo portava a letto il nostro collega.» Belthar mostrò i denti in un ringhio. «Sa certamente cose che non dovrebbe sapere.»

«Denuncia la scomparsa, ci avverte che sapeva che era del Kleg e ci indica dove lo hanno seppellito sotto falso nome.» Clarion scosse la testa. «Come fai a credere che ci vuole fregare?»

«Non possiamo rischiare.»

Clarion le prese il volto tra le mani. «Anche se fosse non possiamo punire qualcuno perché il nostro collega era un coglione e ha spifferato tutto.»

Sarabi inghiottì l’aria, stava diventando cianotica.

«L’unico dubbio era il cadavere. Ma era tutto come aveva scritto nella denuncia; e non c’è stata nessuna imboscata» disse Clarion.

Belthar si staccò dalla dispensa e si portò nella parte di sala in penombra. «La procedura dice di eliminare chi scopre uno dei nostri sotto copertura.»

«La procedura dice che dobbiamo ripagare chi ci dà un’informazione!»

Sarabi iniziò a tremare.

«E’ innocente, maledizione.» Clarion si alzò e si portò di fronte a Belthar; lo prese per le spalle. «Se ha inviato la denuncia è perché aveva paura. Dovremmo difenderla, non ammazzarla!»

Sarabi boccheggiò e cadde dalla sedia; si accasciò sul pavimento.

Belthar rimase a fissarla con sguardo scettico.

«Se il Teschio avrà da lamentarsi…»

«Mi prendo la responsabilità.» Clarion sollevò Sarabi per farla sedere.

Belthar si stropicciò il mento, e alla fine sospirò; porse una boccetta di vetro, con un liquido verde.

Clarion bloccò la testa di Sarabi, le tappò le narici e versò il contenuto in gola. Le massaggiò il collo per aiutarla a deglutire.

«Quanto impiegherà a riprendersi?» Clarion le appoggiò una mano sulla fronte: era fredda.

«Due giorni per riprendersi completamente.» Belthar la fissò nelle pupille. «Già adesso dovrebbe riuscire a parlare.»

Clarion le tolse i capelli dalla faccia. «So che è difficile per te. So com’è la vita di un profugo. All’inizio forse pensavi che il tuo padrone fosse fuggito dal sacco di Arrensen, come te. Poi invece...»

«Cosa volete da me?»

«Solo che tu ti riprenda, Sarabi.» Clarion le accarezzò la guancia. «Settimana scorsa il tuo padrone è stato via per una giornata intera. Te lo ricordi?»

Sarabi annuì.

«E’ successo qualcosa di strano dopo?»

Sarabi aggrottò la fronte, ammiccò, quindi scosse la testa.

«Sei sicura? Qualsiasi cosa fuori dal normale.»

I lineamenti di Sarabi erano spaventati. «Ha visto il mercante di cavalli, lo ha incontrato alla distilleria e gli ha dato dei soldi.»

«Qualsiasi cosa succeda sappi che non era davvero un usuraio.» Clarion si avvicinò e Sarabi si ritrasse. «Era un brav’uomo. Uno che ci teneva a Itis, e anche a te. Uno che voleva vendicare quello che era successo ad Arrensen.»

Rumore di passi all’esterno, un gruppo stava passando davanti alla casa. Belthar si avvicinò alla finestra e controllò oltre le tende, di lato. Si girò verso Clarion e scosse la testa.

Il respiro di Sarabi divenne più profondo, il viso si contrasse: forse stava verificando se riusciva a gridare.

«So queste cose perché quel giorno è passato da noi.» Clarion si allontanò a un passo di distanza; sfoggiò un sorriso gentile. «Ha parlato di te, e so cosa hai fatto per lui; o meglio, per noi. E lo sanno anche tutti gli altri.»

Uno strillo femminile e divertito, seguito da una risata maschile. I passi all’esterno si allontanarono.

Lo sguardo di Sarabi si spostò su Belthar.

«Lui ti lascerà stare.» Palmi aperti verso l’alto Clarion provò a riavvicinarsi. «Adesso è tutto passato; voglio solo portarti a riposare.»

Sarabi si lasciò sollevare. Pesava poco. Magra, carina, pelle morbida, ma meno formosa della donna che frequentava di solito.

Clarion allontanò quei pensieri mentre procedeva verso le scale. I gradini di legno scricchiolarono.

Belthar dilatò le narici. Clarion scosse la testa per comunicargli di non intromettersi; fece attenzione a spostare Sarabi di lato per non farle picchiare la testa.

«Allora non vuoi dirci di chi hai paura?»

Clarion riusciva a sentire il battito del cuore di Sarabi: stava aumentando d’intensità.

«A parte noi ovviamente. Che vogliamo solo proteggerti.» Il sorriso di Clarion voleva mostrare affabilità. «Anzi, voglio sdebitarmi. Manderemo qualcuno a difenderti mentre ti riprendi.»

Rughe di preoccupazione comparirono sul volto di Sarabi.

«No. Non li facciamo entrare: li terremo qua fuori per fermare Sall il fabbro» disse Clarion.

Un lampo negli occhi di Sarabi.

«Perché non volevi dirci il suo nome?» Clarion strinse le labbra per mostrare delusione. «Forse è per questo che il mio amico se l’è presa.»

«Io.» La voce di Sarabi era debole, tossicchiò. «Io non sapevo.»

«Lo sospettavi però.»

Oltrepassarono un corridoio in parquet ed entrarono in una stanza con scrivania, vaso da notte e letto con coperte di velluto.

«No. Non qua.» La mano della donna si strinse sulla manica di Clarion.

«Non vuoi dormire nel letto del tuo padrone.» Clarion sorrise, comprensivo. «Allora ti porto nella tua stanza.»

Le braccia di Clarion ripresero a dolergli: dopo aver scavato erano già provate.

«Come lo hai capito?» chiese Sarabi.

«Ho saputo che il becchino ha ricevuto una somma da Sall. E nella famiglia di Sall sono tutti in salute. Inoltre il tuo padrone stava indagando su di lui. E adesso tu mi confermi che sospetti qualcosa.»

Clarion adagiò Sarabi sul letto. La stanza era piccola con un libro appoggiato sopra un comodino di legno.

Gli occhi di Sarabi si spalancarono.

«Segui la religione di Achan all’interno delle mura di Itis.» Clarion rimase a fissare il libro. «Sei fortunata. Io non mi occupo di religioni clandestine.»

L’espressione preoccupata rimase sul volto di Sarabi. La aiutò a coprirsi e le accarezzò il viso. Aprì la finestra: la tiepida aria della notte entrò insieme al rumore lontano dei canti.

«A presto.»

 

* * *

 

Un gruppo di pecore belava in un campo lasciato a maggese. L’odore degli animali attenuava la puzza decisamente peggiore del concime alchemico disseminato nei campi.

Clarion aspettava con le braccia incrociate, appoggiato al recinto. L’ombra di un faggio lo riparava dal sole, ma l’afa lo stava soffocando: il saio che indossava era chiazzato di macchie di sudore. Ad aumentare il fastidio la testa gli prudeva a causa dell’impasto collante che si era messo per simulare la tonsura frontale.

Riprese a camminare avanti e indietro, senza uscire dalla zona d’ombra. Controllava l’esterno della palizzata cittadina: la porta da cui la gente entrava e usciva, passando sul ponte sopra al fossato. Braccianti agricoli e lavoranti delle corporazioni: alcuni lo fissavano con sospetto, altri lo salutavano.

Belthar lo raggiunse, camminando a quattro passi di distanza da un gruppo di muratori; i rinforzi in metallo del giaco di cuoio tintinnavano, e al braccio sinistro portava un guanto che gli arrivava fino al gomito.

«Ne hai impiegato di tempo.» Clarion fece un cenno con la testa. «E quello cos’è?»

«Una precauzione.» Belthar sollevò il guanto; mosse le dita, come per saggiarne la comodità. Il cuoio scricchiolò. «Per non ripetere l’errore che hai fatto due mesi fa.»

«Intendi quando ho evitato un’evasione di massa dal Ludum?» Clarion s’incamminò, affiancandosi a Belthar. I loro passi sullo sterrato sollevavano nuvolette di polvere.

«Esatto: quando hai messo a rischio una delle più potenti risorse del Kleg.»

«Intendi la demone? Moina?»

Clarion lanciò un’occhiata al cartello di fianco alla strada, una freccia con la scritta in vernice gialla: “distilleria”.

«Sì, lei: ha informazioni sul nemico, e mi ha aiutato a sfruttarle.»

Uno stormo di uccelli cinguettò; presero il volo, staccandosi dalla vigna e atterrando su un cipresso distante dallo sterrato.

«Sarebbe a dire?» Clarion studiò il guanto.

Metà delle labbra di Belthar sorrisero, l’altra metà si storse in una smorfia di compiacimento.

Clarion fece spallucce. «In ogni caso, Belthar, quella presunta “risorsa del Kleg” è più un fastidio che altro: Moina è brava solo a fare il pallone gonfiato.»

La faccia di Belthar divenne seria; fissò Clarion per poi scuotere la testa.

«Non fare il modesto. Se la cava, ma non ha speranze contro di te.» Gli occhi di Belthar brillarono pieni di sarcasmo. «In tutta Itis non esiste nessuno più bravo di te a vantarsi.»

Clarion arricciò le labbra in una smorfia disgustata. «Sono passato a trovarla alla chiesa di Triam. Dice che per passare il tempo ha convinto una guardia a stuprare una condannata a morte: a stuprarla mentre crepava.»

«Moina è un demone. L’avrà detto per prendersi gioco di te.»

Oltrepassarono un incrocio e lasciarono indietro i campi, arrivando davanti a un edificio in mattoni con un cortile centrale. Un gruppo di dieci persone stava mangiando, seduto a un tavolo sotto a un gazebo. Il rumore delle posate si mischiava al chiacchiericcio.

«Ogni tanto mi chiedo se le dicerie su di te non abbiano un fondo di verità» disse Belthar. «Forse non hai il fegato.»

Clarion si limitò a grugnire; fissava le entrate dell’edificio, controllando i commensali con la coda nell’occhio.

«E sono sicuro che Moina apprezzerebbe il tuo vestitino: saresti un perfetto prete di Achan.» Belthar non rise, ma la risata traspirava dallo sguardo.

«Vedi di fare la tua parte: ci hanno visto» disse Clarion.

I commensali si erano voltati a fissarli; il silenzio aveva sostituito il rumore delle chiacchiere.

Il viso di Belthar si tese, gli occhi divennero cavità nere: si girò a scrutare le persone sotto al gazebo. Un cucchiaio si bloccò, paralizzato in aria: la minestra colò dentro il piatto, spruzzando la maglia dell’operaio. Tutti rimasero incollati alle sedie.

«Si vede che ti sei applicato molto: il tuo sguardo da suocera indisposta è una vera opera d’arte» disse Clarion. «Peccato non possano godersi anche il tuo umorismo.»

Un urlo di dolore squarciò l’aria: proveniva dall’interno dell’edificio, da sotto.

Le espressioni dei commensali si adombrarono; tornarono ad abbassare gli sguardi sul cibo e a succhiare minestra dai cucchiai.

Clarion raggiunse la porta in noce e la aprì; fece spazio a Belthar per farlo entrare.

«Peccato non ci abbiano fermati. I lasciapassare e le lettere sottoscritte dal Custode di Achan sono magistrali» disse Clarion.

Un altro urlo di dolore: arrivava dal corridoio a destra.

«Sai che gli Achaniti credono di farsi perdonare dal loro dio?» disse Belthar. «Già che ci siamo prima di ammazzare il prete potresti anche confessare i tuoi peccati.»

Il caldo continuava ad assediare Clarion anche all’interno dell’edificio, e l’odore acidulo di vinacce permeava l’aria.

«Visto che sei un uomo di cultura, sai dirmi se tra i loro dogmi c’è qualcosa del tipo: non falsificare la firma d’altri?»

«Prova a urlarlo più forte, magari Achan risponderà alle tue domande. O magari lo faranno loro...»

Due uomini sbucarono dalle nicchie al muro del corridoio: mazze alla cintola, giacche di cuoio uguali a quella di Belthar e sguardo tra il sospettoso e il minatorio.

«Cultura e umorismo, insieme. Quanto talento sprecato.» Clarion parlò a bassa voce. Alzò la mano sinistra con il palmo aperto e portò la mano destra alla borsa, fissando le due guardie. Movimenti controllati, peso distribuito sulle gambe: erano pronti a combattere.

Un urlo di dolore vibrò su per le scale: proveniva da una porta in basso, socchiusa.

«Cosa ti porta qui, fratello?» La guardia dall’aspetto più anziano aveva una brutta cicatrice all’orecchio destro, metà del padiglione superiore era stato strappato: sembrava il segno di un morso.

«Fratello Meris è disponibile?» Clarion estrasse la lettera dalla borsa e la porse.

La guardia con mezzo orecchio non badò alla lettera; socchiuse gli occhi, fissando una piega sul mantello di Belthar. «Te lo ripeto con le buone. Cosa ti porta qui fratello?»

«Prima devo sapere se siete anche voi bravi fratelli?» Clarion sorrise, mostrando la mano libera.

«Perché hai bisogno di saperlo?» disse mezzo orecchio.

Clarion si voltò a scrutare le reazioni dell’altro. La guardia più giovane trattenne il respiro e tese la mascella.

«Sono Inquieti» disse Clarion.

Belthar sfoderò una lama ricurva, nascosta nella protuberanza del mantello: il primo colpo partì dal basso a destra verso l’alto a sinistra. Il secondo seguì una traiettoria orizzontale da sinistra a destra.

Mezzo orecchio portò una mano alla pancia da cui uscivano le interiora e l’altra mano alla gola che spruzzava zampilli di sangue.

Il petto della guardia più giovane si gonfiò per urlare.

Il pugno guantato di Belthar lo raggiunse allo sterno, facendogli sputare l’aria. La lama ricurva si conficcò nella cavità dell’occhio sinistro. Belthar tirò, facendo chinare la guardia. Quando liberò la lama un pezzo di occhio schizzò fuori insieme a uno spruzzo scarlatto. Una ginocchiata raggiunse i denti della guardia e bloccò l’urlo successivo. La lama scese ad arco: si piantò nella nuca della guardia, tagliando le vertebre sotto.

Il corpo atterrò con un tonfo.

«Come hai detto che si chiama quell’arma?» disse Clarion.

Mezzo orecchio appoggiò un braccio al muro; gorgogliava bolle di sangue. Gli cedette un ginocchio e scivolò a terra. Aprì le labbra senza riuscire a parlare; fissò il giovane compagno con tristezza e rabbia fino a che gli occhi non si spensero.

«Karambit.» Belthar alzò la lama: aveva un buco nell’elsa dove l’assassino aveva infilato il mignolo.

«Be’, questo Karambit fa un cazzo di casino: hai spruzzato ovunque.»

Belthar si chinò e appoggiò due dita sul collo della guardia con la vertebra tagliata. Annuì. Morte confermata.

«Quello sbudellato lo sposti tu.» Clarion prese sotto le ascelle la guardia più giovane;

trascinò il corpo in una nicchia del corridoio.

Belthar appoggiò due dita sul collo di mezzo orecchio, poi lo prese per le braccia e lo depose sopra all’altro cadavere. Tirò un calcio alle interiora che penzolavano, per toglierle dalla vista. Un pezzo d’intestino finì in faccia alla guardia più giovane: gli colò sulla guancia.

Clarion pulì con uno straccio le macchie di sangue e la macchia lasciata dalle interiora. Con cautela prese il pezzo di occhio e due incisivi rotti: li buttò sopra ai cadaveri.

«Ha smesso» disse Clarion.

«Non mi piace.» Belthar saltò due gradini alla volta e arrivò alla porta. La aprì ed entrò. «Merda.»

Clarion abbandonò lo straccio e scese, incrociando l’assassino che risaliva.

«Finisco di occuparmi io del casino. Tu urla» disse Belthar.

«Che cazzo.» Un flagello, sporco di sangue e brandelli di pelle, era appoggiato sul tavolo davanti a un uomo pelato seduto su una sedia, sopra una pozzanghera densa e scarlatta. La carne sulla schiena del pelato era squarciata e l’elsa di un pugnale spuntava dal costato.

«Ha capito cosa stava succedendo.» Belthar lanciò il karambit a Clarion. «Già che ci sei fallo sembrare realistico.»

Gli occhi di Clarion si puntarono sull’arma. Tese la mascella.

Aprì la bocca: voleva lamentarsi, dire che non spettava a lui.

Belthar rientrò nella stanza, trascinando mezzo orecchio: gli intestini strisciavano sul terreno di fianco agli stivali del cadavere. Gli occhi dell’assassino fissavano Clarion: lo sguardo esprimeva un’accusa silenziosa.

La bocca di Clarion si chiuse: si girò verso il pelato.

Prese l’elsa del pugnale che spuntava dal cadavere e tirò, causando rumore di risucchio e una colata viscida di sangue. Abbandonò il pugnale. Il metallo tintinnò sul pavimento.

Clarion urlò a squarciagola.

Il karambit si alzò verso l’alto e ricadde, squarciando il petto del cadavere. Il sangue spruzzò sul tavolo.

Aveva mancato la ferita del pugnale e aperto un altro squarcio.

Non andava bene.

Clarion cercò di liberare l’arma rimasta impigliata tra le costole.

Girò e rigirò: allo scricchiolio di ossa si unì il gorgoglio umido della carne. Con uno strappo estrasse l’arma. La faccia del cadavere cadde sul tavolo, le braccia a penzoloni.

La mano di Clarion tremava. Prese il cadavere per una spalla e lo tirò su, sbattendolo sulla sedia.

Un altro urlo. Un altro spruzzo di sangue.

Stavolta aveva colpito al punto giusto. La ferita del pugnale ora sembrava una ferita da karambit.

Con uno strattone liberò l’arma e la sollevò di nuovo. Aprì la bocca per lanciare un urlo, ma una mano gliela tappò.

Belthar lo girò, prese il karambit e gli mise una mano sulla spalla.

«Lo so.» Lo sguardo di Clarion si allacciò a quello dell’assassino. «Cinque urla. Una per ciascun aspetto di Achan. Ne ho fatte abbastanza»

Belthar annuì, diede un’occhiata al karambit e lo rinfoderò. Si chinò per studiare la ferita al petto del flagellante. «Dovevamo interrogarlo prima.»

«Non potevamo fare altro.» Le mani di Clarion tremavano ancora, le nascose dietro la schiena.

«Chissà cosa avrebbe detto il nostro defunto collega.» Lo sguardo di Belthar s’indurì. «Oggi hai flirtato con la sua amante, hai dissacrato il suo cadavere, hai mandato in malora i risultati delle sue indagini e adesso, grazie al tuo piano, abbiamo “suicidato” l’ultima pista per ritrovare...»

«Non ho mandato in malora niente. Ho usato le risorse che ha raccolto per raggiungere un obiettivo più importante.»

Il pugno di Belthar si serrò. «Fondandoti su cosa? Sul tuo cazzo di istinto da primo della classe?»

«Li abbiamo interrogati tutti. In due settimane. Tutti i membri del Kleg in contatto con gli Inquieti.» L’indice di Clarion si sollevò. «Guarda caso passa una settimana e uno di loro crepa.»

«Le tue teorie non convincono nessuno.»

«Nessuno. Tranne il Teschio, e quel fottuto non morto è il nostro capo.»

Belthar agitò una mano come per scacciarlo. Si chinò sul cadavere e lo prese sotto le spalle. «Almeno qua non dobbiamo pulire» disse Clarion.

A terra c’erano macchie di sangue coagulato. Solo allora Clarion si accorse dell’odore di chiuso, muffa e marcio.

«Tu non c’eri durante l’assalto al Ludum, Belthar. Gli Inquieti sono uno dei gruppi, ma ce n’è un altro: hanno un alleato. E questi alleati usano lame ricurve.»

«Non hai convinto neanche Moina.» Belthar lasciò il cadavere dentro l’armadio. «Avrai incontrato uno dei loro sacerdoti.»

«I sacerdoti di Achan sono bravi solo a predicare, magari anche a fustigarsi. Ma non hanno poteri soprannaturali: non possono essere stati loro.» Clarion si stava massaggiando i polsi, le mani avevano smesso di tremare.

«Un mago allora.»

Clarion si spostò verso l’apertura nel muro, in alto: si riusciva a vedere uno spicchio di cielo, ma nient’altro.

«Non puoi negarlo. Magari è solo un mago» ripeté Belthar.

«Combatteva troppo bene. Non poteva essere un mago.»

«Già. Adesso esistono regole che vietano ai maghi di usare le armi.» La voce di Belthar era canzonatoria.

«Sapeva combattere, sapeva come neutralizzare la “nostra potente risorsa” e sapeva pure usare la magia? Gli Inquieti non hanno né tempo né risorse per addestrarsi così bene. Non è ragionevole.»

«E se invece lo fosse. Se fosse solo bravo.» Belthar prese una coperta dal pagliericcio e la usò per coprire i cadaveri ammonticchiati nell’armadio. «Ci siamo messi a interrogare i nostri colleghi per i tuoi fottuti sospetti. A spargere sfiducia!»

«L’idea della indagini interne è del Teschio.» Clarion sorrise con metà labbra, mostrando i denti in una smorfia. «E i nostri cari colleghi sono perlopiù pezzi di merda corrotti.»

Belthar sbuffò, voltando le spalle, per uscire sulla scala. «Poi ti chiedi come mai non piaci a nessuno.»

«Gli Inquieti volevano sfondare le mura del Ludum. Questo invece ci voleva entrare, capisci? Voleva entrare. Dobbiamo capire qual è il loro obiettivo.»

«Entrare nel Ludum. Certo, non lo stava facendo per scappare da Moina, lui voleva entrare in quel buco di culo.» L’aspra risata dell’assassino si allontanò lungo le scale. «Quando arriva Sall lo faccio scendere.»

Clarion fissò la sedia usata dal flagellante, fratello Meris era il suo nome.

Maledizione. Quanta cazzo di gente stava facendo ammazzare?

Si sedette sulla sedia ancora sporca di sangue.

 

* * *

 

Sall il fabbro entrò nella stanza sotterranea e si guardò intorno con circospezione. Fissò il sangue a terra; alzò lo sguardo e studiò Clarion.

«Benvenuto Sall.»

«Chi sei?»

«Puoi chiamarmi il Nevariano.» Clarion simulò l’accento nevariano, con le vocali più ampie e la cadenza più lenta. «Sono qua con ordini del Custode di Achan. Direttamente da Olinam.»

«Ordini per me?» Sall sollevò le sopracciglia.

«No.» Clarion rise, in maniera cordiale. «Per il flagellante. Adesso li sta eseguendo, nel frattempo mi ha detto di occuparmi della tua faccenda.»

«La mia faccenda...» Lo sguardo di Sall indugiò sul tavolo, sul pagliericcio all’angolo della stanza e sull’apertura sul muro. Dalla rigidità del corpo Clarion intuì che il fabbro stava resistendo all’impulso di guardarsi alle spalle.

«Molto intelligente la scusa che usi: passare di qua per confessarti.» Clarion si accarezzò una guancia, spostando lo sguardo sul pezzo di cielo che si vedeva dall’apertura. «Mi sono dimenticato di chiedere al tuo superiore se lo fai veramente o se passi solo con i rapporti.»

Sall non riuscì a resistere, lanciò un’occhiata dietro di sé. La porta era libera.

«Dov’è fratello Meris?»

«Non ti ha mai rivelato il suo vero nome?» Clarion si accigliò.

«Non mi piacciono i tuoi metodi.» Sall fece un passo indietro.

«Va bene.» Clarion sorrise, tornando a guardare gli occhi di Sall. Fissò le pupille. «So che non apprezzate interferenze dirette dalla Chiesa di Achan. Ma per ora i flagellanti continuano a essere miei subordinati.»

«Parlo solo con Meris.» Sall fece un altro passo indietro, lanciò un’occhiata alla porta. Aperta e libera.

«La festa domani finisce, Sall.» Clarion sbuffò, come spazientito. «Non avrai più tempo per procedere. E il flagellante non tornerà in tempo. Dovrai parlarne con me.»

«Non parlo con chi non conosco e non mi piacciono le sorprese dell’ultimo minuto.» La mano di Sall passò orizzontale davanti a sé. «D’ora in poi il mio prezzo raddoppia per voi.»

«Aspetta.» La mano di Clarion sbatté sul tavolo; alzò schizzi di sangue. «La salvezza dell’anima può venire solo dalle buone intenzioni.»

Sall abbassò la testa e scoppiò a ridere, tornò a fissare Clarion con derisione. «Voi Achaniti dite un sacco di cazzate.»

«Sono d’accordo. Ma non sapevo in che frase inserire la parola d’ordine: anima.»

Sall si voltò, in tempo per ricevere un pugno da Belthar.

L’uomo cadde con un tonfo, svenuto.

«Complimenti.» Anche lo sguardo di Belthar era canzonatorio. «Altro fallimento della giornata.»

«Il prurito iniziava a innervosirmi.» Clarion tirò la pasta che aveva in testa, per togliersi la falsa tonsura. Si strappò anche alcuni capelli.

«Ora faccio da solo.» Dalle mani di Belthar pendeva una corda, la tese per testarne la resistenza.

«Come sarebbe a dire?»

«Vedrai che avrò le informazioni. Senza farlo urlare.» Belthar appoggiò il corpo del fabbro sulla sedia. «Non voglio sorprese, controlla che non arrivi nessuno.»

«Sono rimasti solo gli operai. Secondo il rapporto di Dulam Dan ci sono solo tre Inquieti: due bravi fratelli armati e un flagellante.»

«I rapporti si sbagliano a volte.» Belthar stava legando le mani del fabbro. «O magari in tempo di festa le cose cambiano.»

«E cosa dovrei fare io fuori?» Clarion si indicò con l’indice.

«Non so.» Belthar fece spallucce. «Predica, prova a salvare le loro anime. Magari scoprirai di avere la vocazione per diventare prete.»

Belthar si avvicinò a Clarion, gli appoggiò una mano sul petto e lo spinse fuori dalla porta.

«E rimettiti questo in testa, o si insospettiranno.»

Belthar gli mise in mano l’impasto per la tonsura e chiuse la porta.

 

* * *

 

«Cosa ti avevo detto!»

Clarion era felice di essersi liberato di quel dannato impasto. Aveva anche cambiato i vestiti: la giacca di velluto che aveva addosso odorava di pulito.

«Non ti dai per vinto.» Belthar rimase a guardare fuori dal finestrino della carrozza.

Il rumore del pavé sotto le ruote e lo scalpitio degli zoccoli si mischiava allo schiocco della frusta del conducente.

«Sicuro: un altro caso.» La luce del tramonto filtrava oltre le tendine, illuminando i sedili in legno. «Che fortuna: Sall nascondeva la ricetta per una pozione in grado di abbattere le difese magiche del Ludum.»

«Sall “credeva” di avere una ricetta del genere. Ha detto di non averla mai provata, e credimi, me ne sono assicurato prima di sistemarlo come gli altri.»

Dal finestrino entrò l’odore e il fruscio del fiume Mozan, linea di confine che divideva il quartiere amministrativo dalla zona dell’università.

«Contrabbandava segreti commerciali; non si metteva a sperimentarli» disse Clarion.

«Stai oltrepassando il limite.» Belthar ringhiò. «Un tizio ti è scappato. Per due volte. E adesso sostieni che uno stregone guerriero alchimista sta fregando gli Inquieti e il Kleg insieme. Ti sembra verosimile?»

«Non hai più argomenti. Lo capisci?» Clarion chinò la testa e aprì le braccia.

La carrozza rallentò. Il conducente emise un forte “oooh” e i cavalli si bloccarono, sbuffando.

«Ricorda: l’obiettivo si chiama Allemander: Sall ha detto che hanno ucciso il nostro collega nel suo camerino e adesso contano di usarlo come corriere.»

«Sì, sì.» Clarion annuì. «Ha l’ultima copia della ricetta, delle altre se ne occuperano i Bracchi. Ho capito.»

Belthar aprì la portiera della carrozza, rivelando una piazza disseminata di capannelli di gente che chiacchierava. Sullo sfondo un edificio coperto da cartelloni: “oggi a teatro, la compagni degli Occhi Blu.”

Il crepuscolo era avvolto da un manto di nubi purpuree.

«Anche il Teschio ha detto che non possiamo trascurare le mie teorie» disse Clarion.

Belthar sbuffò e saltò giù, atterrando nella strada polverosa.

«Il Teschio è un non morto. Sai cosa presuppone? Che è morto almeno una volta nella vita.»

«Allora perché non te ne vai?» La testa di Clarion sbucò dalla carrozza, si appoggiò con entrambe le mani sui lati della portiera mentre scendeva. «Se hai ragione non serve più la tua presenza. Vattene. La finisco io questa storia.»

«Resto per rendere onore a un collega caduto. E perché io sono un professionista.»

Gli sguardi dei due si spostarono sulla folla: gruppi di uomini con giacche di seta e velluto e donne con borse ricamate e cappottini in lapin o in volpe.

«Guarda, cazzo.» La testa di Clarion fece un cenno verso una testa bionda. «Un altro caso.»

Belthar guardò la donna bionda che ricambiò lo sguardo e fece l’occhiolino. A Belthar.

Quella troia aveva fatto l’occhiolino a Belthar. E inoltre stava a braccetto con un uomo in pantaloni di cotone, giubba color fiordaliso con merletti e cappello piumato.

L’uomo fece una battuta. E la donna rise.

Clarion digrignò i denti.

«Problemi con Letis?» chiese Belthar.

«Nessuno.»

«Strano. Si diceva che avessi l’esclusiva su di lei. Mentre ore gira voce che ti abbia tirato dietro il vaso di fiori che le avevi regalato ieri.»

«Le voci sono il mio campo, non il tuo.» Clarion prese un respiro e rilassò il portamento. «E’ solo una Figlia della Notte. E non è l’unica troia in città.»

Il viso di Belthar si contrasse. Per un istante, ma Clarion non mancò di notarlo.

«Sei stato a letto con lei, Belthar?»

«No.» Tono lapidario, viso immobile.

Il cocchiere fissava il fiume; ma aveva l’espressione attenta, forse li stava ascoltando. Meglio chiuderla lì.

«Osserva un maestro in azione.» Clarion avanzò in maniera spavalda, spalle alte, sorriso audace. Si diresse verso la coppia: si avvicinò a Letis e le sorrise. Letis sollevò le sopracciglia, come di fronte a un ospite indesiderato.

Clarion si voltò verso l’attore.

«Mastro Allemander.» Clarion prese la mano dell’uomo, stringendola tra le sue. «Sono onoratissimo. Ho visto la vostra interpretazione di Arum da Bastilone.»

«Grazie.» Gli occhi di Allemander s’illuminarono d’orgoglio, ma la testa si voltò verso la strada: desiderio di andarsene.

Clarion gli scosse la mano e il braccio in maniera energica. La mano di Allemander era calda e sudata, ma più ruvida e callosa di quanto si aspettasse: forse un ex contadino. «La sfida al padre di Severa, l’interpretazione dell’addio sulla costa della luna. Dei capolavori!»

«Grazie, grazie.» Allemander si liberò della stretta di Clarion. «Posso chiedere con chi ho l’onore di parlare?»

Letis fissò Clarion con sospetto. Belthar raggiunse il gruppo e la donna si rilassò.

«Ma certo!» Clarion si toccò la tesa del cappello e s’inchinò. «Sir Ceridan Delmuro. Un ramo cadetto di casa Bracchi in realtà.»

«Sir Ceridan.» Letis emise un risolino. «Conoscevo uno con lo stesso nome, un tale così imbranato che ha rovinato una cena.»

Clarion riusciva a sentire il profumo alla vaniglia di Letis: lo distraeva. Perse un istante di troppo.

«Sentite, Sir Ceridan.» Allemander sorrise, aveva le labbra flaccide, pastose. «Apprezzo molto i complimenti. Davvero, amo il pubblico come voi. Ma…»

«No. Non c’è “ma” che tenga. Sono in missione» Clarion fece l’occhiolino a Letis. «Domani ci sarà una festa e sono incaricato di organizzare gli intrattenimenti.»

Allemander aprì la bocca per replicare, ma fu interrotto da un movimento di Clarion: una borsa tintinnate solcò l’aria. L’attore la prese al volo.

Un gruppo si voltò attirato dal rumore. Belthar li fissò finché non si girarono di nuovo.

«Ma, ehm.» Allemander ammiccò. Era bravo: era riuscito a trattenersi, ma non abbastanza. «Domani purtroppo…»

«Ho detto domani?» Le dita di Clarion si appoggiarono al mento. «Domani c’è l’ultimo giorno di festa giù ai vicoli. Intendevo tra quattro giorni.»

«No. Non è per la festa, in realtà…»

«Certo. Certo. Gente di classe come noi non andrebbe mai alla festa degli spazzini per incontrare qualche contadina dalle idee aperte. Sia mai.» Clarion fece l’occhiolino all’attore. «Soprattutto quando ci sono in giro fanciulle dai gusti facili.»

Il viso di Letis si adombrò.

«Senza offesa signora. Apprezziamo tutti i vostri servizi. Anche se a volte siete un po’ troppo affrettate.» Clarion sollevò una mano per prevenirla.

«Forse siete voi ad arrivare troppo in fretta.» Letis sbatté le ciglia, in modo lento e deliberato. «Alle conclusioni. Sa, sir Ceridan, io penso che un uomo che cambia spesso donna lo fa perché si vergogna.»

«Ti prego. E’ un gentiluomo.» Allemander appoggiò le dita sulla mano i Letis, e il volto della donna si adombrò.

«Dicevamo?» riprese Clarion.

Allemander soppesò la borsa, inserì le dita ed estrasse un Aral d’oro. «Tre giorni, giusto?»

«Ehi, ma quello non è Sarriel.» Gli occhi di Clarion si fissarono su una persona del gruppo intimidito dallo sguardo di Belthar. «Se la compagnia Occhi Blu è in città magari domani…»

Allemander tossicchiò. «Domani c’è la festa, ricordate? E la mia compagnia è la migliore.»

«Sì, però, magari…» Clarion si grattò la guancia.

«Basta con l’inganno» disse Allemander. Clarion notò subito l’irrigidirsi di Belthar. Letis invece rimase rilassata, o al massimo un po’ offesa. Il sorriso di Clarion si allargò.

«Siete venuti dritti da me. E sapete quello che volete.» Allemander annuì con fare saggio, appendendo la borsa alla cintura. «Non voglio contrattare sul prezzo. Noi artisti siamo sensibili.»

«Posso dargliene un’altra, però oltre…» Clarion trattenne il respiro, per simulare di essere stato colto alla sprovvista.

«No. No. Non funziona così.» Allemander tornò ad appoggiargli la mano sul braccio. «Dobbiamo incontrarci davanti a un tavolo. Io dico il prezzo e voi mi dite dove e quando.»

«Sul prezzo in realtà…»

«Andiamo. Sappiamo perché siete venuti da me. Volete fare colpo su una donna meravigliosa che vi ha rubato il cuore. Vero?» Allemander lo prese per le spalle e strinse in maniera amichevole. «Avete scelto l’uomo giusto.» Si indicò con il pollice. «Ora, posso assicurare che farete così bella figura che tra un anno più ci ripenserete più vi direte: sì, sono stati i soldi miglior spesi della mia vita!»

Diavolo. Una lettura a freddo con uno schema di persuasione complesso. Li insegnavano pure agli attori?

Le labbra di Clarion rimasero aperte, nella sua migliore interpretazione del ricco boccalone. «Cosa posso rispondere? Ditemi solo cosa fare e io la farò.»

«Conosco un locale qua vicino. Prendiamo qualcosa insieme…»

«Perché non il vostro camerino, adesso?» Clarion fissò il sole sparire oltre gli edifici.

«Non sarebbe…»

«Oh andiamo. E’ solo un capriccio che vorrei soddisfare da molto tempo. Vedere dietro le quinte.»

Allemander storse le labbra e fissò Letis.

«I nostri accompagnatori aspetteranno.» Clarion sorrise, inclinando la testa. «Anche se in questo caso sarete voi a perdere. Ma non si può vincere sempre.»

«Direi...»

«Perfetto. Vado a prendere la borsa. Almeno ci togliamo subito il problema dei soldi.»

Allemander aveva incrociato le braccia e stretto le labbra: stava scuotendo la testa. Ma si rilassò e sorrise mettendo in mostra tutti i denti quando Clarion tornò con una borsa grande il doppio di quella prima.

Clarion fissò prima la borsa poi Allemander. «Non posso finirli tutti. Vi prego abbiate pietà.»

«Sono sicuro che raggiungeremo un accordo proficuo per entrambi.»

Allemander lo prese per un braccio, e lo accompagnò nel teatro.

La zona sembrava vuota, a parte stracci e cartacce sparse tra i sedili. Nei corridoi incrociarono un uomo con la barba finta e uno con un cappello pieno di campanelli che tintinnavano: salutarono Allemander con un cenno della testa.

Clarion e Allemander arrivarono all’ingresso di un camerino. La luce della sera entrava da una finestra larga due spanne: troppo stretta per una eventuale fuga.

«Benvenuto nel mio sancta sanctorum.» Allemander accese una lampada a olio e sollevò le mani aperte, mostrando la stanza.

Un vestito verde dondolava da un appendino; sopra una scrivania c’erano trucchi e uno specchio da toeletta. Nell’angolo della stanza si trovava una borsa aperta da cui pendevano altri vestiti e un grosso manuale con titolo in argento. Da un barattolo usciva odore di pasta alchemica: la stessa usata da Clarion per mascherarsi.

Allemander diede un calcio a una spada di legno, e spinse al suo posto uno sgabello: fece cenno a Clarion di sedersi.

«Il meglio della comodità dell’attore itinerante.» Allemander prese posto su uno sgabello a destra del tavolo.

Clarion appoggiò la borsa vicino al muro, di fianco alla porta. Sbuffò e si asciugò la fronte. «Voi non capite il peso che portano quelli come noi.»

L’attore sorrise, ma la luce negli occhi mostrò che non aveva apprezzato la battuta.

Clarion chiuse la porta.

«Ma cos’é quello?» Clarion si lanciò sul libro dentro la borsa e il viso di Allemander si irrigidì. «Una copia della saga di Bastilone.»

Allemander si allungò per recuperare il libro.

Clarion lo schivò, allontanandosi dalla sua portata. «Che divertimento c’è se non posso neanche curiosare.»

«Lì dentro ci sono tutti i miei segreti.» Allemander stava sudando. Ormai il sospetto doveva essergli venuto.

«Ci sono anche delle parti scritte in codice.»

«Ridatemelo.»

Clarion sfogliò alcune pagine, controllandole con cura alla luce della lanterna. Sì. Era quello che cercava. Scosse la testa e sfoggiò un ghigno.

«Ve lo avevamo detto con le buone.»

Le palpebre superiori di Allemander si alzarono; le palpebre inferiori si tesero.

«Ma voi niente. Volete a tutti i costi farlo saltare» disse Clarion.

«Io non centro.» Allemander scosse la testa. «Sto solo facendo un favore a Sall.»

«Chissà quante altre volte avete usato questo libro per far passare i segreti di Itis.»

«Vuoi il libro? Prendilo e lasciatemi in pace.» Pupille rimpicciolite. Rivolo di sudore sulla fronte.

«Non abbiamo più nulla da guadagnare da un alleanza con voi Inquieti.» Clarion si avvicinò alla borsa di fianco alla porta. «Siete troppo… instabili.»

«A Sall non piacerà.» La voce incrinata di Allemander non era molto intimidatoria

«Sall oggi è andato al convento. Il flagellante doveva fare i nomi delle guardie compromesse.» Clarion lasciò cadere il libro nella sua borsa. Le monete tintinnarono. «Era il piano, no? Stasera doveva dirti quale porta usare per uscire dalla città.»

«I bravi fratelli vi ammazzeranno. Voi e le vostre amichette.». Allemander si alzò. Lo sgabello si rovescio e rotolò sul pavimento.

Clarion non chiedeva altro. Si abbassò, mise una mano nella sacca ed estrasse un karambit, infilando il mignolo nel buco dell’elsa.

Allemander si voltò, si tuffò tra gli appendini che caddero sferragliando; prese una corda da terra e tirò. Una botola si aprì con un cigolio: uscì una zaffata di odore di chiuso e muffa.

Clarion balzò con il karambit in mano: simulò il colpo dal basso verso l’alto che aveva visto fare a Belthar. Il karambit lasciò una scia sanguinante sulla schiena di Allemander. Strappò i vestiti e aprì un buco anche nella borsa più piccola che l’attore aveva addosso. Gli Aral d’oro si rovesciarono sul pavimento; alcuni rotolarono nella botola.

L’attore saltò nel buco; atterrò e sollevò le braccia per richiudere la botola. Clarion calò il karambit: la punta ricurva penetrò nel dorso della mano destra di Allemander, la lama s’infilò tra le ossa. Clarion tirò: il rumore della carne squarciata fu seguito dall’urlo che straziò l’aria, ma la botola si chiuse comunque.

Clarion, con calma, prese la corda e sollevò la botola.

Un lamento dal basso. Uno strattone. La botola si richiuse. Clarion sentì il rumore di un asse spostata.

A posto: Allemander aveva bloccato l’accesso.

Clarion si sistemò le pieghe del vestito; si avvicinò alla porta e bussò due volte.

Belthar entrò.

Si avvicinò anche l’attore con la barba finta. «Che succede?»

«Regalano soldi.» Clarion si avvicinò alla borsa, tornò dal barbuto e gli strinse il polso; gli girò la mano e gli versò una manciata di Aral d’oro sul palmo. «Ora levati.»

Gli chiuse la porta in faccia.

Belthar prese il tappeto e lo sollevò, buttandolo di lato. Piegò le ginocchia per avvicinarsi al pavimento; spostò gli Aral d’oro per studiare le tavole di legno al di sotto.

«Sall diceva la verità.» L’indice di Belthar indicò una macchia scura. «Questo è sangue.»

I polpastrelli di Clarion stavano seguendo il muro; spostò un armadietto, e controllò la parete dietro.

«Il muro è stato ridipinto di recente.» Clarion fece un cenno verso il basso. «Qua a terra c’è polvere, mentre là no.» Clarion si spostò ad indicare un altro punto della stanza, in prossimità del muro. «Hanno spostato il mobile.»

Belthar annuì. Aprì la porta e fece finta di entrare.

«Il nostro collega è entrato e avrà visto Allemander, in questo punto.» Belthar si pose al centro, corpo diretto verso il tavolo. «Come è arrivato fin qui secondo te?»

«Sapeva che Allemander doveva portar fuori i segreti commerciali. Forse era venuto a corromperlo, o forse pensava di interrogarlo.»

La fiammella della lanterna tremolò coprendo di ombre il viso di Belthar. «O forse Allemander lo aveva fatto entrare con l’inganno. E gli Inquieti hanno organizzato tutto.»

«Allemander era un’Ombra. Avrebbe letto i loro comportamenti e non si sarebbe fatto fregare.» Clarion scosse la testa.

«Allemander era un attore, Cla. Simula per professione.»

«Non abbastanza bene. O stai suggerendo che Dulam Dam fosse una verduraia mancata?»

«Dulam Dam non era il suo nome vero, lo conoscevano come Assenio. A proposito, non sapevo che frequentavi il teatro.» Belthar recuperò la lanterna appesa allo stipite della porta e spostò la luce per illuminare le parti della stanza in penombra.

«Non conoscevo Allemander.»

«Eppure ti sei diretto verso di lui. Sembravi sicuro.»

Clarion sfoderò un sorriso compiaciuto. «Torniamo alla scena. Dulam Dan è entrato, vede Allemander. L’attore è di spalle, magari nasconde il viso, fingendo, che ne so, di provarsi un vestito. Dulam aspetta. Quando…»

Clarion chiuse la porta.

Belthar sbuffò, poi annuì. «Sall esce da dietro la porta. E lo colpisce tre volte. Il nostro collega è un’Ombra, non sa difendersi e non ha supporto visto che è sotto copertura. Lo spingono contro la parete e la sporca di sangue. Prova a urlare, ma ha la spina dorsale danneggiata.»

«Seguendo la tua teoria: un morto per noi contro tre dei loro. Direi che siamo pari.» Clarion annuì.

«No, che non lo siamo.» La dita di Belthar si strinsero in un pugno.

 

* * *

 

Letis li aspettava davanti alla carrozza. Li guardò arrivare, poi controllò dietro di loro: nessuno li stava seguendo.

«Avete fatto fuori un mio cliente?»

Clarion prese Letis per la spalla e la tirò di lato, allontanandola dalla carrozza. Il conducente era ancora là.

La pelle di Letis era morbida: indossava un abito a spalla bassa, e una gonna ampia color rosa. La donna non oppose resistenza.

«Chi ti ha pagato per il servizio?»

Letis alzò le sopracciglia, si girò. Belthar stava appoggiando le borse d’oro nella carrozza.

«Forse la domanda è lecita» disse l’assassino, tornando da loro.

Letis sbatté un piede per terra. «Oh. Lui può chiedere il servizio a chi gli pare e io dovrei offrirlo solo a chi dice lui? Chi è Mincirettir?»

Belthar sollevò le sopracciglia. «Chi è Mincirettir?»

«E’ una a cui ho voluto offrire l’intercessione del Kleg, per farla promuovere tra le Figlie della Notte.» Clarion fece spallucce.

«Dopo tutto quello che ho fatto per te, bastardo?» Letis fece un passo avanti, rossa in volto. Aveva tutta l’aria di volerlo colpire. «Adesso frequenti un’altra?»

«Spero sia più bella rispetto al nome.» Belthar ridacchiò.

Clarion lo scrutò per un attimo. Niente, sembrava che neanche Belthar il professionista riconoscesse quel nome.

«L’ho appena vista prima che si dava le arie nel salone.» Letis emise un risolino malvagio senza togliere gli occhi da Clarion.

Clarion conosceva quello sguardo: Letis stava cercando di leggere le emozioni, per capire se la rivale gli interessasse veramente. Bene, quindi gli attori conoscevano la persuasione, e le troie l’analisi. Pensare che gli istruttori gliele avevano spacciate per tecniche segrete.

«Non è stato Allemander a pagarti.» Clarion incrociò le braccia.

«Adesso un mio cliente è diventato affare di Stato.» Letis voltò la faccia, sollevando il mento.

«Senti troia.» L’indice di Clarion si piantò sullo sterno di Letis; premendo sul corpetto, al limite con la scollatura. Il profumo di vaniglia tornò ad assediarlo. «Rispondi alla domanda se non vuoi che passiamo alle cattive.»

«Pensavo che la fase delle minacce fosse passata.» La delusione negli occhi di Letis lo ferì: aveva tutta l’aria di essere autentica.

Clarion celò i pensieri dietro a un sorriso.

«Oh, era una battuta.» Le dita di Letis si strinsero sul braccio di Belthar. «Peccato che non sia l’umorismo il metro di misura per la virilità.»

«Se fosse l’umorismo Belthar non avrebbe rivali.» Clarion lanciò un’occhiata all’assassino «Ma lui non ti interessa.»

«E chi te lo dice?» Letis schioccò un bacio sulla guancia di Belthar.

«L’unica cosa che non ho ancora capito è se siete fratelli o cugini.»

Letis si allontanò da Belthar. Lineamenti rilassati, troppo rilassati: stava nascondendo le emozioni, apposta. Belthar invece si leggeva bene: movimento di sopracciglia, durato un istante, ma riconoscibile.

«Cugini quindi.»

«Clarion.» Belthar sostenne lo sguardo di Clarion. Le pupille dell’assassino si dilatarono. «E’ un segreto. Lo capisci.»

Clarion guardò prima l’uomo, poi la donna. «Io lo capisco. Ma voi no.»

Belthar fece per rispondere; ma Letis gli appoggiò una mano sulla spalla. «Non dargli corda. Ce lo dirà comunque.»

«Belthar è addestrato a combattere, fin da giovane immagino. E’ anche capace di cortesia. Nobile. Parla come se gli sia capitato chissà cosa e non ha mai fatto cenno alla famiglia. Non ho trovato informazioni su di loro. La risposta è semplice. Non è di qua: è un profugo, reduce da Arrensen.»

«Hai indagato su di me?» Le sopracciglia di Belthar si avvicinarono tra loro.

«Ovvio, sono un professionista. Tu invece, Letis.» L’indice di Clarion si puntò sull’ombelico della donna. «Sei brava. Anche tu hai avuto un’educazione di un certo livello per diventare Figlia della Notte. E hai ricevuto una spinta da qualcuno nel Kleg, e stranamente quando Belthar non era disponibile sei venuta da me. Mi hai scelto tu, vero?»

Il viso di Letis era rilassato; quello di Belthar no, si poteva notare l’imbarazzo, misto forse a orgoglio, con una punta di compiacimento anche.

«Te l’ha detto Belthar quindi; direi che approvava anche la nostra relazione. Almeno fino a Mincirettir.» Clarion sbatté il pugno nel palmo aperto dell’altra mano. «Ecco perché lo stronzo ce l’ha con me da tutto il giorno. Ti sei lamentata con lui!»

«Questa discussione non andrà avanti» Alle parole di Letis Clarion sospirò, abbassando lo sguardo. «Almeno non fino a quando c’è in giro Belthar che si fa leggere come un sempliciotto.»

Clarion risollevò la testa, fissò i fianchi della donna: ancheggiavano mentre si allontanava. Le ombre della sera si allungavano, sembravano sospirare promesse indecenti.

Forse Letis aveva capito tutto. O forse era solo una professionista, come lui.

«A proposito.» Letis si girò e si ravvivò i capelli. Il seno di profilo nell’incendio di luce del tramonto. «La persona che ha pagato voleva rimanere anonima, per fare un regalo all’attore. Un favore o qualcosa del genere. Ma l’ho trovato strano. Aveva un corpetto, stretto, e i lineamenti erano troppo delicati. Secondo me era una donna.»

«Una donna!» Clarion batté le mani e ringhiò dalla soddisfazione. Si voltò verso Belthar. «Cosa ti avevo detto?»

Belthar prese un lungo respiro. Fece per rispondere, ma si trattenne. Prese un altro respiro e infine annuì.

«Forse il Teschio aveva ragione.»

«Certo. Adesso è tutto merito del Teschio.»

 

* * *

 

Il rumore dei festeggiamenti era aumentato rispetto al giorno precedente. La celebrazione stava raggiungendo l’apice. L’aria notturna portava con se un tanfo di cibo andato a male.

Un gatto attraversò la strada.

«Di che colore era?» chiese Clarion.

«Bianco» disse Belthar.

«Come fai a saperlo? Sei riuscito a vederlo a occhio nudo? Dalla mia maschera ho visto solo la sagoma rossa.»

«Lo so, perché almeno la smetti di dire stronzate.»

Le dita di Claron accarezzarono la maschera; strinse ulteriormente i lacci. L’odore del cuoio lo rassicurava.

«Sei sicuro di essere pronto?» disse Clarion.

L’aria della notte era calda, l’afa del giorno si stava attenuando.

«Sei sicuro che sia lei, Clarion?»

«Sì.»

Non aveva attivato la connessione mentale della maschera, eppure Clarion credeva di sentire il fastidio nei pensieri di Belthar, misto alla preoccupazione.

«Prima di rispondere dovresti metterti in dubbio e rielaborare. Non possiamo sbagliare ora.»

«Certo Padre Belthar. E dovrei anche flagellarmi all’alba, a mezzogiorno e al tramonto.»

«Rischi troppo. Sei perfino andato in camera con lei, da solo.» Belthar scosse la testa. «Sapevi che poteva essere pericolosa. Il buono e il cattivo funzionavano, perché hai voluto rischiare?»

«Per ottenere fiducia. Avevo paura tentasse la fuga.»

Una folata di vento tiepido agitò l’insegna di una bottega chiusa, forbici e ago stilizzati: un sarto. Lo scricchiolio e il tintinnare del metallo risuonò nitido grazie all’amplificazione della maschera.

«Ridimmi cosa sappiamo, Cla.»

«Li chiamerò Dormienti, giusto per capirci.» Le luci delle case erano spente. Il bagliore della luna illuminava i vicoli. La maschera riconosceva e mostrava anche le fonti di luce oltre a quelle di calore, e sapeva autoregolarsi. «L’obiettivo dei Dormienti è difendere il Ludum. Gli Inquieti invece hanno una formula per abbattere le difese magiche del Ludum. Tu che faresti?»

«Ruberei la formula e ammazzerei chi minaccia il mio obiettivo.»

«Così facendo perderesti l’alleanza con gli Inquieti.»

Da una strada laterale provenne il rumore di uno scroscio. Clarion si girò e vide una sagoma rossa a una finestra al primo piano, lenta: una vecchia che aveva svuotato il vaso da notte.

«Quindi che faccio?» disse Belthar. «Perché mandare un’Ombra del Kleg a farsi ammazzare e poi mandare noi? Perché non mandare subito noi?»

«Magari il primo è stato un errore. La Dormiente credeva che sarebbe bastata un’Ombra. Solo che gli Inquieti si erano insospettiti, e si sono mossi per primi.»

«Ma non è questa la tua teoria.»

«No.» Clarion sollevò lo sguardo al cielo: nuvole all’orizzonte. Si vedevano nonostante la visione al calore. Stavano oscurando le stelle, presto anche la luna sarebbe stata coperta.

«Allora?»

«Pensa al peggio.»

«La situazione peggiore? Un Pugnale in preda a un attacco d’ira potrebbe picchiare a morte il compagno Ombra in un vicolo oscuro.»

Clarion rise. «Va bene. La mia teoria è questa. Dopo l’attentato al Ludum gli Inquieti sospettano dei Dormienti. Quindi siamo arrivati noi a rendere le cose ancora peggiori.» Clarion ripercorse mentalmente la vicenda. «Abbiamo interrogato un sacco dei nostri colleghi. I Dormienti si sono infiltrati anche nel Kleg e quindi si sono resi conto dell’indagine. Sapevano di noi e sanno sicuramente anche del Teschio. Si saranno cagati addosso. Così hanno fatto eliminare la persona che li conosceva di più: Dulam Dam.»

Un’altra folata di vento, questa volta era fredda. Il tempo stava cambiando.

«E Letis?»

«E Letis.» Clarion annuì. «Il Dormiente sapeva che l’attore era il corriere e sapeva della mia storia con Letis. E’ come se lo avesse marchiato a fuoco. Probabilmente aveva paura che Allemander si accorgesse di noi che chiedevamo in giro e ne approfittasse per fuggire.»

«Errore che sicuramente avresti fatto» disse Belthar.

«No.» Clarion scosse la testa. «L’errore l’hanno fatto loro. Sono disperati: noi alle costole, uno dei loro uomini disperso nel Ludum e gli Inquieti ai ferri corti. Devono essere pochi se sono riusciti a nascondersi fino ad ora. Ma sono pericolosi.»

Erano arrivati.

Belthar portò il pugno al petto e sbatté i tacchi, per salutare l’uomo davanti a lui.

Un uomo in giaco di maglia, tunica celeste, gradi da capitano dei Bracchi. Sollevò il pugno e replicò il saluto.

«Siamo pronti. Sono il capitano Warwin, al vostro servizio.»

Un gruppo di tre guardie accovacciate nel vicolo con la schiena appoggiata alla parete, indossavano giachi di maglia. Un’altra guardia in veste di cuoio era nascosta dietro a una cassa: fissava la casa dove avevano lasciato Sarabi.

Clarion appoggiò la spalla al muro, rimanendo nella zona in ombra. Studiò l’edificio.

«Quanti uomini abbiamo?» chiese Clarion.

«Quattro squadre per ogni lato dell’edificio. Tutte le vie di fuga coperte.» La testa di Belthar fece un cenno verso l’alto. «Dieci balestrieri scelti sparpagliati sui tetti.»

Warwin annuì. «A due piazze di distanza abbiamo un campo di guaritori di Triam. Un reggimento di Bracchi è nascosto in un magazzino del quartiere, pronto a intervenire in caso di sommossa. La bloccarda è stata avvertita.»

«Ho chiesto a un gruppo di Ombre di infiltrarsi alla festa.» Clarion sorrise sotto la maschera. «Sapranno cosa fare in caso di rivolta, se necessario spargeranno il panico.»

Il capitano alzò le sopracciglia. «L’obiettivo è solo la donna?»

«C’è stato movimento nel pomeriggio?» Clarion appoggiò una mano sul muro; controllò le luci dell’edificio. Tutte spente.

«Si è spostata per le stanze per pulire e farsi di mangiare. Ha svuotato i vasi dalla finestra, ma non è mai uscita. Al tramonto si è coricata. Nessuna visita. Nessun altro movimento.»

Belthar annuì. «Ci sta aspettando.»

Clarion assaporò l’aria fresca della notte, e diede un’occhiata allo spicchio di luna rimasto. Aspettò che le nubi la coprissero del tutto.

«Come ci muoviamo?» chiese Warwin.

Belthar si chinò, osservando il terreno. «Io e il mio collega entriamo per primi. Controlliamo la zona e proviamo a coglierla di sorpresa. Aspettate cinque minuti, poi procedete con l’irruzione.»

Una carezza gelata fece drizzare tutti i peli sul collo di Clarion, aria di pioggia. Si leccò le labbra e tornò a fissare Belthar.

Belthar indicò davanti con indice e medio.

Si parte.

Sgusciarono nell’ombra della viuzza, rasenti al muro, controllando finestre e porta.

Si portarono ai due lati di una finestra al piano terra. Clarion prese una boccetta e si avvicinò alle persiane. Stappò la pozione con il pollice e la versò sul legno, con attenzione.

Il sibilo dell’acido si unì all’odore di uova marce. Il sigillo delle persiane si sciolse.

Clarion fissò il muro, concentrandosi sulla visione al calore:: nessuna sagoma rossa.

Aprì la persiana. Svuotò la boccetta sul vetro della finestra. Le crepe si formarono con uno crepitio. Il vetro si sciolse, dissolvendosi in fumo bianco.

Clarion attese che si raffreddasse.

Portò una mano all’interno, e al tatto riconobbe una bottiglia in ceramica; la sollevò, attento a non toccare i bordi del vetro della finestra.

Una specie di allarme. Trasmise Clarion a Belthar, mentre appoggiava la bottiglia a terra. Ci saranno oggetti anche davanti alle altre finestre. Stiamo attenti a non urtare niente.

Clarion portò di nuovo la mano all’interno, tolse il blocco della finestra; prese un ampolla da una borsa e lasciò colare due gocce d’olio sui cardini. Aprì: l’anta scivolò in silenzio.

Clarion sollevò la testa. La sagoma di calore al piano superiore spostò un braccio; lo portò sulla faccia e si strusciò sul cuscino. Tornò immobile, sdraiata sul letto.

Belthar annuì.

Clarion si appoggiò al bordo della finestra, si issò sul davanzale; e rimase appollaiato.

La visione al calore non era il massimo per notare i dettagli. Mise una mano in tasca e prese un sasso che brillava di luce magica: lo strinse tra le labbra in modo da avere le mani libere. La luce color giada illuminò la stanza coprendo la visione al calore.

Alle spalle il soffio del vento alzò una nube di polvere che si agitò nella viuzza e lo sferzò sulla schiena. Clarion si appoggiò al lato della finestra per non perdere l’equilibro.

Studiò le piastrelle del pavimento: color seppia, usurate e qualcuna non era fissata bene. Le aveva già controllate durante l’accesso la sera prima.

Appoggiò un piede sul pavimento.

Tutto a posto. Alzò una mano verso Belthar, facendogli cenno di entrare.

Clarion si avvicinò alla porta d’entrata: individuò subito una bottiglia piena di sassolini. Sarebbe caduta se qualcuno avesse aperto la porta.

Sono dentro, Cla. Copro la scala.

Si stavano muovendo bene. Gli unici rumori erano gli schiamazzi della festa; un tamburo suonava in lontananza, a ritmo incalzante. Clarion pensò di sentire anche il rumore delle pive che si mischiava al fischio del vento.

Tornò a concentrarsi sulle piastrelle.

Troppo facile. La porta principale non poteva avere solo la bottiglia.

Lui cosa avrebbe fatto?

Un filo. Tra due oggetti ai lati. Si abbassò a controllare, avvicinando la luce.

Eccolo. Un filo minuscolo legava un tavolino a un armadio. La gamba del tavolo in questione non era fissata: sarebbe crollata con tutto quello che aveva sopra, compresa una scatola piena di biglie. Avrebbe creato il pandemonio e fatto inciampare chi entrava.

Insidioso. Ma non bastava.

Clarion infilò una mano in tasca ed estrasse polvere rosa ciliegia, appiccicosa. La sparse, agitando la mano. La nube aleggiò nell’aria: la sagoma di un filo comparve dal nulla, diventando dello stesso colore rosa della polvere. Un filo invisibile. Si collegava a un minuscolo anello nel muro, largo meno di una pupilla.

Clarion si alzò, agitò altra polvere e seguì il filo: andava a collegarsi a una fiala appesa al soffitto, verniciata di bianco in modo da mimetizzarsi con le candele di un lampadario di bronzo. Ma era pronto a scommettere che non fosse saldata.

Pozione esplosiva credo. Trasmise Clarion, e fece un cenno sopra di lui. Posso tagliare il filo e farla calare, con attenzione. O lasciarla lì.

Clarion tagliò l’altro filo, quello fissato alla gamba del tavolo.

La porta è chiusa? Trasmise Belthar.

Clarion scavalcò il filo rimasto e si accovacciò per verificare la serratura.

Chiusa.

Ho lasciato il segnale alla finestra. Entreranno da lì. Trasmise Belthar.

Clarion fissò lo straccio rosso appeso alla finestra.

Controlla la scala, Cla.

Clarion si avvicinò agli scalini. Legno. Escluse piastre a pressione: troppo pericolose in un passaggio usato così spesso. Doveva essere qualcosa preparato in poco tempo, mentre Sarabi fingeva di fare le pulizie. Magari c’era solo qualche gradino scricchiolante.

Cla. Spegni la luce.

Clarion chiuse le labbra, coprendo il sasso. La visione al calore si riattivò.

Pensi quello che penso io? Trasmise Belthar.

Oltre la parete al piano terra c’era un puntino rosso: una sagoma di calore, minuscola.

Lo hai visto prima? Trasmise Belthar.

Non mi pare. Ma la luce del sasso potrebbe aver coperto la visione al calore prima che me ne accorgessi.

Belthar lanciò un’occhiata al piano superiore. Lo sguardo di Clarion lo seguì: la sagoma rossa al piano superiore era ancora sdraiata.

Belthar, la porta per accedere a quella stanza si apre verso l’interno. Per controllarla dovremmo...

Ting.

«Cla! A terra!»

Clarion sentì prima l’urlo, poi il corpo di Belthar che lo spingeva giù.

L’impatto con il terreno gli fece sputare il sasso insieme a un rivolo di saliva. La stanza si illuminò di verde malaticcio.

La faccia di Clarion atterrò a una spanna dal filo collegato alla pozione esplosiva.

Liquido viscido e caldo gli colò sulla nuca. Clarion si pulì con la mano. Sangue. Porca troia.

Il peso del corpo di Belthar si sollevò. Clangore di metallo contro metallo.

Clarion si rannicchiò, appoggiando le mani a terra per rialzarsi: riusciva a muoversi.

Sarabi indossava un giaco di cuoio e aveva in mano un karambit, sferzò l’arma nell’aria; la fece roteare nella mano per cambiare la presa e con il colpo successivo mirò alla faccia di Belthar.

L’assassino parò il colpo con l’avambraccio destro, protetto dall’armatura, e balzò indietro: il cuoio si squarciò con uno strappo. Belthar finì contro il muro; dalla spalla gli usciva l’asta di un dardo. Il cuoio della maschera e il giaco rinforzato erano viscidi di sangue.

La spada di Belthar si sollevò a parare, ma la lama del karambit era troppo piccola, troppo veloce. Sarabi finse e attaccò di nuovo scivolando sotto la guardia di Belthar. L’assassino sferrò un fendente per allontanarla, ma si sbilanciò di lato, con la guardia alta scoperta.

Il karambit si alzò per finirlo.

Clarion sfoderò un pugnale dallo stivale, chinò la testa e caricò.

Il karambit si abbassò verso Clarion. Belthar ne approfittò per assestare un affondo.

Una scossa di dolore attraversò la scapola di Clarion. Strinse i denti: con la mano sinistra cercò di bloccare il braccio di Sarabi, ma riuscì solo ad afferrare la balestra che pendeva dalla cintura della donna; con il pugnale mirò allo stomaco.

Sarabi prese al volo il polso della mano armata di Clarion e fece leva, catapultandolo contro a Belthar. La lama dell’assassino stava per trapassarlo, ma Belthar deviò l’affondo.

Clarion atterrò, rotolando sulla spalla sana. L’istinto gli fece stringere la presa: si aggrappò alla balestra per trascinare anche Sarabi. La donna tagliò la cintura per liberarsi. Si resse i pantaloni con l’altra mano.

«Dietro il mobile, Belthar. Copriti.» Clarion riprese l’equilibrio.

Nel frattempo una porta interna si era aperta: non la aveva sentita. Un lampo bianco si diresse verso il collo di Clarion. Ci fu un rumore simile al vibrare di un bicchiere di cristallo.

Clarion lanciò la balestra verso la porta.

L’arma atterrò con un rumore di legno e metallo che sbatteva, seguito dallo schiocco del filo che si spezzava. La fiala iniziò la caduta. Tutto sembrò rallentare, forse era un potere della maschera.

Il lampo bianco era a una spanna di distanza dal collo di Clarion. Il rumore del cristallo che vibrava aumentò.

Si bloccò di colpo, sostituito da un clangore metallico. Un pugnale volò nell’aria e sbatté contro il lampo bianco; l’arma rimbalzò, roteando in aria per poi cadere a terra. Con la coda dell’occhio Clarion si accorse di Belthar ancora in posizione dopo aver lanciato la lama.

Il lampo deviò la corsa e andò piantarsi nella parete. Clarion era convinto di sentire lamenti acuti misti a un ronzio provenire da quella direzione.

La fiala toccò il terreno: il vetro si frantumò e il liquido rosa si sparse sulle piastrelle, coprendo anche il sasso di luce.

Il cuore di Clarion cominciò a martellare quando sentì il sibilo della pozione che reagiva.

Sarabi si lanciò nella stanza di fianco.

Belthar si schiacciò dietro al mobile.

Il lampo bianco si tuffò in una pentola di rame.

Clarion fece appena in tempo a ribaltare il tavolo per coprirsi.

L’esplosione coprì il resto dei rumori, e fischiò nelle orecchie di Clarion. L’onda d’urto sbalzò il tavolo, trascinandolo con sé anche Clarion: sbatté con la schiena sullo spigolo del mobile dove si era riparato Belthar. La fitta di dolore si espanse a tutti gli arti. Lo attraversò come una scossa: arrivò fino alle dita dei piedi e ai polpastrelli delle mani, perfino sotto al cuoio cappelluto.

Clarion si rannicchiò, senza respiro. La scossa fu sostituita da un’ondata di fuoco, come se tutto il corpo stesse bruciando dall’interno e le fiamme premessero per uscire da sotto la pelle.

La volontà di Clarion si aggrappò di nuovo al proprio istinto.

Fissò lo straccio rosso legato al davanzale della finestra e iniziò a strisciare. Ogni mossa gli faceva risuonare il dolore nei timpani. Non riusciva a sentire altro, come se il dolore potesse essere udito.

Una pentola gli rotolò vicino. Dentro gli sembrò di vedere una donna minuscola e luminosa: si stava tenendo la testa, come stordita.

Clarion scosse la testa, per liberarsi dalle allucinazioni. Si attaccò allo straccio rosso e lo strappò. Strinse il davanzale e fece forza con le ginocchia per alzarsi. Scavalcò la finestra e si lasciò cadere aldilà.

L’atterraggio nel vicolo gli tolse il respiro. Il dolore pulsava, le fitte partivano dalla spina dorsale per circolare in tutto il corpo. Era come se migliaia di chiodi gli raschiassero la carne e i muscoli: stava affogando nell’agonia. Puntini di dolore gli riempirono la visuale. Ebbe l’impulso di togliersi la maschera per avere più aria, ma si trattenne.

Sentì l’aria fresca della notte. Il sapore della polvere sulle labbra e l’odore della terra. Se rimaneva immobile diventava sopportabile: sentiva solo un dolore sordo alla schiena.

Belthar. Cosa cazzo è successo?

La sagoma rossa di un gatto lo osservava dall’angolo, con la coda alzata e arricciata.

Belthar. Mi senti?

Il fischio alle orecchie continuava. Gocce di sudore gli colavano dal naso.

Clarion provò a muovere un braccio: un’altra scossa di dolore scaturì dalla spina dorsale, seguita dalla sensazione di bruciare. Alzarsi era un incubo.

Girò la testa. La porta. Quattro uomini. Warwin.

Il lampo bianco saettò fuori dalla porta. Si schiantò contro il collo di Warwin, e aprì uno squarcio scarlatto. La fontana di sangue innaffiò le altre tre guardie.

Uno dei Bracchi tentò un fendente con la spada.

Il lampo bianco volteggiò, schivando il colpo e portandosi dietro alle guardie. Si voltarono.

Errore.

Sarabi scattò fuori dalla porta e li prese alle spalle. Rumori umidi, di carne che si strappava e ossa che si rompevano. Clarion si rese conto di aver recuperato l’udito.

Le guardie erano cadute. I lamenti dei sopravvissuti risuonarono nella notte.

Clarion fissò un occhio che pendeva da un’orbita: dondolava avanti e indietro sulla guancia di un Bracco, mosso dal vento. Warwin e i suoi uomini erano andati.

Quattro uomini corsero di fianco a Clarion, sollevando altra polvere che gli andò dritta in gola; tossì, ebbe la sensazione di aver ingoiato delle spine.

Sarabi corse nel vicolo, aveva cambiato cintura.

Un dardo di balestra si piantò a terra, davanti alla donna, di fianco al piede destro. Un altro dardo la raggiunse alla spalla: si conficcò nella carne. La donna barcollò, appoggiò la mano a un muro per mantenere l’equilibrio e riprese a correre. Il lampo bianco volò verso i tetti degli edifici.

Ciao. Ciao. Balestrieri.

Con uno sforzo di volontà Clarion puntellò una mano a terra. Si alzò.

Si accasciò contro il muro. Troppo dolore.

Un sibilo predatorio riverberò nella notte, sopra l’ululare del vento. Proveniva dal cielo.

Dalla casa di Sarabi uscì una figura con indosso la maschera del Kleg. Premeva la mano sull’avambraccio destro squarciato. Belthar.

L’assassino puntò lo sguardo al cielo, e allontanò la mano dalla ferita.

Il guanto al braccio sinistro s’illuminò di luce color ametista.

Un urlo. Una balestra cadde nella via adiacente, finì in pezzi che schizzarono intorno. Il corpo di un uomo atterrò di fianco ai resti dell’arma. Il balestriere si teneva ancora le mani sulla gola da cui zampillava sangue.

Lo sguardo di Belthar attraversò la notte; controllò i vicoli adiacenti.

Vene iridescenti di luce magica uscivano dalla porta sfondata, illuminandolo il gatto. Era marrone come fango. Si era avvicinato ai cadaveri delle guardie e stava lappando il sangue dal terreno. Lanciò un’occhiata sospettosa a Belthar prima di tornare ad abbeverarsi.

«Riesci a parlare?» Belthar si tolse la maschera; si chinò vicino a Clarion.

«Cos…» Clarion deglutì, non si aspettava la fitta di dolore. «Cosa è successo? Da dove è uscita?»

La mano di Belthar gli tolse la maschera. «Ci aspettava al piano terreno. La visione al calore non la mostrava.»

Belthar gli prese un braccio e lo aiutò a camminare, tenendo il peso di Clarion sulla spalla sana.

«C’eravamo quasi cazzo. Ce l’avevamo!» Clarion digrignò i denti. Le fitte si stavano attenuando, ma il sangue gli ribolliva dalla rabbia. «Tutta colpa di queste fottute maschere.»

«Le maschere funzionano, Cla.» I lineamenti di Belthar erano tesi per la concentrazione, come se parlasse mentre pensava ad altro. «Penso che Sarabi abbia mascherato il suo calore.»

«E la sagoma che abbiamo visto al piano superiore?»

«Era solo una traccia di calore. L’ha lasciata lei, non so come; ma ho controllato: non era lì fisicamente.»

Clarion voleva solo far smettere il dolore. Stava diminuendo troppo lentamente. Eppure una soluzione c’era: prese l’etere dalla borsa.

Belthar lanciò solo un’occhiata alla boccetta, e non disse niente; eppure Clarion sapeva cosa stava pensando il compagno. Belthar continuò ad avanzare, tenendolo sulla spalla sana.

Clarion sospirò, rimettendo nella borsa l’etere. «Come lo spieghiamo al Teschio?»

Un urlo di dolore squarciò l’aria. Acuto. Straziante. Aveva poco di umano.

Il volto di Belthar si rilasso, sulle labbra comparve un ghigno compiaciuto. «Anch’io avevo una sorpresa per loro.»

Belthar aiutò Clarion ad appoggiarsi al muro; quindi si spostò al centro della strada, più larga rispetto al resto dei vicoli. Sollevò il braccio: il guanto irradiava luce ametista che rifletteva negli occhi di Belthar.

Un brillio nel cielo, in avvicinamento. Veloce.

Un falco dalle piume nere arrivò in picchiata. Spalancò le ali di fronte a Belthar. Gli artigli strinsero il guanto, il cuoio cricchiò.

«Ho studiato i rapporti sul tuo scontro davanti al Ludum. E Moina mi ha dato qualche idea.»

Il becco del falco era sporco di scarlatto, si aprì e lasciò cadere un corpicino nella mano dell’assassino. Belthar porse il corpicino e rovesciò il palmo. Clarion unì le mani a coppa per prenderla: sentì il peso della creaturina atterrare.

Brillava ancora di bianco, ma la luce era stentata, si afflievoliva.

Volto femminile contratto da rughe di sofferenza, capelli legati da un filo color platino, biondo chiaro con chiazze di sangue. Un’ala strappata a metà da un taglio netto e un braccio mozzato all’altezza del bicipite, l’osso spuntava dalla carne oltre i brandelli del vestitino verde, come uno stuzzicadenti d’avorio, spezzato.

Belthar tirò fuori un pezzo di carne e lo lanciò al falco: il becco schioccò, prendendo la ciccia al volo.

La curiosità aiutò Clarion a sopportare il dolore. Continuò a studiare la creatura: la sentiva muoversi, era calda e viscida di sangue. Emise un lamento e lo guardò. Negli occhi apparve una scintilla di sfida, la testa si mosse. La creatura tossì minuscoli schizzi di sangue; digrignò i denti. La luce bianca aumentò e la manina rimanente scattò.

«Che diavolo?» Clarion aprì le mani e spalancò gli occhi dal dolore, qualcosa lo aveva punto. Il corpicino cadde, lasciando una scia insanguinata. Atterrò nella polvere.

«Il falco mi ha detto di avergli spezzato la schiena.» Belthar fissò la goccia di sangue uscire dal palmo di Clarion. «Forse non ha fatto bene il lavoro: è esausto a causa delle raffiche di vento.»

La polvere della strada si sollevò in un mulinello, come se il vento volesse dichiarare il proprio disappunto.

«Il falco?» Clarion girò il corpicino a terra, con cautela. La polvere si mischiava al sangue, coprendole il viso come una maschera di fango.

«Questo guanto mi fa comunicare con il falco. Per questo non potevo rispondere con la maschera.» Belthar prese l’ala della creatura tra pollice e indice, la sollevò da terra. Provò a scuoterla: la testolina rimbalzò da una parte all’altra e il sangue gocciolò a terra. La luminosità si era spenta del tutto. «Peccato. E’ morta.»

Il gatto miagolò. Gli occhi brillavano verdi alla luce delle stelle e seguivano l’ondeggiare della creaturina. L’animale stava guardando con aria mendicante.

Clarion provò una sensazione inaspettata. Come se il cuore gli tremasse. Rilassò i muscoli del volto per celare i sentimenti.

Il corpicino finì in una delle borse di Belthar. La tela si macchiò di sangue.

«Vediamo come se la cava Sarabi senza la sua amichetta.» Belthar sollevò l’avambraccio. Il falco lanciò un sibilo, spalancò le ali e si alzò in volo, sparendo nella notte.

Ripresero a camminare verso la festa: Belthar lo aiutava a sorreggersi, ma il dolore era passato in secondo piano. La missione non era finita.

Davanti a loro al posto delle canzoni e della musica provenivano rumore di colpi e grida di rabbia.

«Riesco a camminare.» Clarion si liberò della presa di Belthar, sollevò le spalle e mise la maschera. Belthar fece lo stesso.

Clarion caracollò nel vicolo, si appoggiò al muro e prese fiato, quindi sollevò la testa e riprese ad avanzare celando le difficoltà. I rumori aumentavano.

Sudore umano, carne arrosto e birra acida si mescolavano al tanfo di sterco animale e legna bruciata.

Clarion e Belthar svoltarono in un angolo.

I fuochi nella strada principale ardevano di fiamme arancioni e illuminavano i visi della folla di bagliori cremisi. La gente indossava vestiti di tela; alcuni solo degli stracci, i più fortunati avevano abiti da lavoro in cuoio.

Una donna gridava dal dolore.

La parete di folla bloccava la vista. Clarion non riusciva a scorgere il punto da dove arrivava il rumore dei colpi. Si fece largo a gomitate. Quelli che si giravano vedevano la maschera e li lasciavano avanzare. Il corridoio umano si apriva e si chiudeva subito dopo il loro passaggio.

L’ultimo uomo tra la folla e la fonte del casino agitava un boccale, lanciando grida di incitazione davanti a sé. Uno spruzzo di birra raggiunse la giacca di Clarion. L’uomo dalla barba incolta si voltò per scusarsi, notò la maschera e impallidì; indietreggiò per sparire nella folla.

Clarion gli rivolse solo un’occhiata prima di voltarsi.

Cinque uomini con giachi di maglia e tuniche celesti: Bracchi. Sarabi a terra nel fango. Il tacco di uno stivale la raggiunse alla nuca: le premette la testa in una pozzanghera, forse birra rovesciata.

Le braccia della donna sbattevano sulla strada, alzando nuvole di polvere. Da una gamba spuntavano le aste di due dardi di balestra, spezzate. Un altro spuntava dalla spalla. Rivoli di sangue confluivano nella pozzanghera.

La folla urlava, sollevava boccali e bottiglie. Le urla incitavano i Bracchi, le guardie che il resto dei giorni della settimana facevano da aguzzini in quei vicoli.

Una guardia sollevò la mazza. L’arma calò sulla gamba sana di Sarabi.

Il suono dell’osso che si spezzava fece aumentare le grida.

Clarion iniziava a odiare quei dannati rumori.

Bollicine d’aria punteggiarono il fango dove era sepolta la faccia di Sarabi.

Una sensazione bruciante si allargò nel petto di Clarion. Furia.

Incassò le spalle e caricò. Il Bracco che stava soffocando Sarabi cadde nella polvere.

Il resto delle guardie si paralizzò. Le urla aumentarono d’intensità.

La guardia a terra prese la mazza e la sollevò. Poi fissò la maschera di Clarion.

Le dita si aprirono. La mazza cadde a terra. La guardia fece un passo indietro. I Bracchi lo osservarono, e fissarono la folla.

Una vecchia sdentata stava urlando in modo sguaiato; agitava un boccale più grande della sua testa.

Clarion riconobbe quattro Ombre del Kleg. Lo fissavano. La cortina scarlatta dell’ira pian piano lo abbandonò. Riprese il controllo.

Sollevò indice e medio: segno di non intervenire.

«Ce ne occupiamo noi.» Clarion riprese fiato.

«Ma signore. Ha ucciso Madser e Rot Mangiascudi.» La guardia che aveva lasciato la mazza indicò Sarabi. «Non possiamo fargliela passare liscia.»

Clarion si voltò, con lentezza deliberata. Fissò la guardia fino a quando non vide i rivoli di sudore colargli sulla fronte. «Pensi che vogliamo portarla a un ballo in maschera?»

Il gozzo della guardia sali e scese.

Belthar colpì la mano di Sarabi con un calcio. Il pugnale tintinnò nel fango. La testa di Sarabi si alzò. Il pugno di Belthar si abbassò. Sarabi ricadde prona nella polvere.

Devi stare più attento. Trasmise Belthar. Questa è già riuscita a fregare Assenio.

Clarion stava riprendendo fiato. Rimase a scrutare la folla e i Bracchi. Belthar sfilò da una borsa una fune scura.

Assenio, certo. Dulam Dan era il nome sulla lapide. Assenio era il nome della copertura. Ma neanche quello era il vero nome. E non mi sono limitato a violare il suo cadavere. Ho anche messo in dubbio tutto il suo operato e chiesto in giro di lui, come se fosse un traditore.

La maschera nascondeva l’espressione dell’assassino, ma la connessione mentale era accesa: provava ribrezzo.

Belthar gli voltò le spalle, appoggiando un ginocchio sulla schiena di Sarabi mentre le legava le mani con una la corda di seta.

Be’ caro il mio professionista che pensa sempre ai colleghi… Il nome della sua vera famiglia è Mincirettir. Trasmise Clarion.

Belthar sbagliò a fare un nodo, lo sciolse e riprese. Le emozioni stavano cambiando.

Sua sorella lo cercava, ma non riusciva a ritrovarlo perché il bastardo era sotto copertura da troppo tempo, e dalla parte sbagliata. Mi è bastato chiedere alle Figlie della Notte, ed è saltata fuori.

Senso di malinconia e senso di colpa greve come fango freddo. Clarion le avvertì nella mente di Belthar. E sentì anche l’assassino che se le scrollava di dosso, come un cane avrebbe fatto con l’acqua.

Qualsiasi cosa accada, io non farò i suoi errori.

Belthar si fermò per un istante, e annuì.



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