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Kleg

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Le storie del Kleg

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Kleg 5 - Costi quel che costi


Siamo agli sgoccioli. Dopo questo racconto pubblicherò un'ultima serie di link, forse ci sarà tempo per un altro articolo e infine pubblicherò l'ultimo racconto del Kleg, che sarà tipo un riassunto/epilogo.

Quindi andrò in pausa mentre mi preparo a passare all'inglese.

Intanto ecco le statistiche di oggi.

Kleg statistics:
Azione, malvagità e intrigo sono le tre colonne portanti di questi racconti (pensavo di aggiungere anche raccapriccio e volgarità, ma questi ultimi due sono più abbellimenti che parti principali). I valori andranno da 1 (contenuto moderato) a 5 (contenuto estremo).
Ecco le valutazioni per questo racconto: fuoco fatuo.
Azione: 4.
Malvagità: 4.
Intrigo: 4.
Se hai già finito il racconto magari dimmi anche se sei d'accordo sulla valutazione; nel caso la metterò a posto per aiutare i prossimi interessati.

La storia sarà molto densa. Ci saranno nuove rivelazioni sui Dormienti e un sacco di violenza più o meno gratuita. Come al solito.

Comparirà tutto il Cast di Itis, meno il Teschio. Ci saranno quindi Clarion, Belthar, Letis, Moina e qualche nuova entrata.

Per incontrare di nuovo il Teschio ci sarà da aspettare l'ultimo racconto della serie che uscirà tra qualche mese.

Consiglio come sempre di scaricare i file word o pdf, che sono molto più comodi da leggere.

Altrimenti clicca pure sulla maschera e leggi il racconto dal tuo browser.

Kleg
Clarion è davvero così malvagio? Scoprilo cliccando sulla maschera per iniziare subito il racconto.
Adesso non attendo altro che le tue personali opinioni.

Costi quel che costi 


I

 

Svegliati.

Si sentiva trascinare per i piedi. La giubba fuoriuscita dalle braghe si era arrotolata lungo la schiena. La superficie del terreno infieriva contro la pelle nuda.

Legno: dovevano essere assi quelle che sentiva.

Una scheggia si piantò nel fianco, ma il dolore sembrava lontano. Il tessuto si incagliò; si tese, tirando sotto le ascelle e bloccando l’avanzata.

Uno strattone. Il rumore di uno strappo.

Svegliati.

Di chi era quella voce? Non la conosceva; ma gli arrivava nitida, mentre il resto del mondo era attutito dalle ragnatele dell’intontimento.

Clarion socchiuse un occhio. Non doveva aprirlo del tutto, non doveva far capire che si stava riprendendo.

Era buio, e le stelle sembravano muoversi nel cielo: era tutto sfuocato.

Un avversario di fronte. Un altro alle spalle. Un alleato in arrivo. Sta pronto.

Un ronzio, seguito da un bagliore, come una stella cadente. Una pressione sul petto.

Il peso sullo sterno si trasformò in un’ondata di calore: scaturì dal ventre per riversarsi nel resto del corpo.

Le sensazioni lo accolsero tutte insieme. Il dolore alla schiena, il peso delle braccia allargate dietro di sé, il mormorio del fiume; ma nessun ondeggiare. Quindi non era una barca; si trovava su un pontile, o un molo.

Un uomo lo stava trascinando: impossibile da riconoscere, era solo un’ombra nel buio. La stretta alle caviglie venne meno e le gambe caddero: gli stivali atterrarono contro le assi di legno con uno schianto.

«Ci siamo quasi; via la maschera.» Una voce profonda, maschile. Proveniva da davanti.

«Aspetta un attimo. Qualcosa non va.» Una voce preoccupata, maschile. Da dietro.

«Ci hanno seguito?»

«No. Il bersaglio.»

Dei passi si avvicinarono da dietro.

«Non doveva dormire per altre ore?» chiese la voce profonda.

Rispose solo lo scricchiolio di una barca, il rumore proveniva da destra.

L’uomo davanti tamburellò il piede contro le assi, e prese un profondo respiro prima di continuare. «Ark, ti ho chiesto se… oh merda.»

Clarion aprì gli occhi in tempo per vedere un uomo che gli stava precipitando addosso. Si rotolò per scansarlo.

«La maschera, Cla! Non fargli rimettere la maschera!»

Clarion balzò in piedi, per lanciarsi sull’uomo dalla voce profonda. Agguantò il bordo della maschera dalle mani dell’altro e cadde insieme a lui sul pontile.

Stringevano i lembi opposti della maschera di cuoio. L’uomo voleva indossarla; Clarion doveva impedirglielo, ma la maschera si stava avvicinando sempre più al volto dell’altro. Aveva la faccia butterata, i capelli radi, e mostrava i denti marci in un ringhio silenzioso.

Una ginocchiata raggiunse le reni di Clarion; la fitta di dolore divampò nel fianco e l’avversario ne approfittò per girarsi, schiacciandolo a terra.

Clarion diede uno strattone per liberarsi dal peso dell’uomo. Gli strappò la maschera dalle mani e lo sbatté contro il muro.

Si alzò, libero e incredulo.

«Il veleno impiega alcuni secondi.»

Clarion si voltò, trovandosi di fronte gli occhi di Belthar che lo fissavano; in mano aveva un pugnale. «Voglio delle spiegazioni. Ora.»

Un rivolo di sangue scorreva dal collo di uno dei corpi a terra: le gocce battevano sulle assi. Belthar doveva aver usato un ago avvelenato per conciarli in quel modo. Il petto dell’uomo si alzava e si abbassava: ancora vivo quindi. Un braccio gli pendeva nel fiume, nell’altro teneva una maschera. Una maschera del Kleg.

Una folata di vento accarezzò la guancia di Clarion. Si portò le mani al volto e toccò la pelle nuda.

«Belthar. Non hai la maschera.»

«Le spiegazioni.» La luce della luna rifletteva sul pugnale brandito dall’assassino, ma non negli occhi. La testa era in ombra, e anche l’altro braccio era nascosto: poteva essere armato di una cerbottana, o peggio, una balestra.

«Non so cosa stia accadendo.» Clarion alzò le mani, il cuore batteva all’impazzata.

Il latrato di un cane provenne da una via vicina. Gli occhi di Belthar rimasero aperti e fissi su Clarion, non sbatté le palpebre neanche una volta. Probabilmente anche lui stava cercando di capire cos’era successo.

«Sono stato avvelenato. O almeno credo» disse Clarion.

Lo sguardo di Belthar si spostò sui corpi a terra, quindi tornò a fissare Clarion. «Mi hai mandato a chiamare poco fa. Non ricordi?»

Clarion si limitò a sollevare le sopracciglia.

Belthar lo soppesò ancora per un istante e infine si decise a rinfoderare il pugnale. I muscoli attorno agli occhi sembravano essersi rilassati, ma la luce della luna poteva ingannare. «Probabilmente hai usato un controreagente per riprenderti così in fretta. Forse hai sbagliato a miscelarlo.»

Il muro di fianco al molo era in mattoni rossi, e da una persiana al secondo piano filtrava una luce arancione: dipingeva strisce di bagliori sul fiume. Un gemito di donna, lungo e prolungato, si alzò da una finestra vicina.

«Devono avermi preso da poco.»

«Abbiamo mangiato con Letis. Finita la cena sei uscito. Poi è passato un ragazzino a dirmi che avevi bisogno di aiuto.»

Clarion ricordava la cena insieme a Letis: avevano mangiato agnello e Belthar si era lamentato della salsa insipida. Il ricordo successivo era il fiume: Clarion non aveva voglia di fare la fila alle latrine ed era uscito a pisciare, come ogni sera nell’ultima settima.

Il tramonto era passato da poco e il fiume rifletteva la luce delle prime stelle. Aveva sentito un fischio; diverso dal gemito del vento notturno. Lì finiva il ricordo.

«Chi? Raglio?»

«Non ricordo il nome.»

Clarion si tastò il collo: umido. Ritirò la mano e osservò il palmo. Sangue. Un ago avvelenato anche per lui.

Però non si ricordava di aver usato alcun reagente.

«Gli ho detto io di recarsi da te?»

Belthar annuì.

Clarion aprì la bocca, storse le labbra e la richiuse. Non si ricordava neanche quello.

Digli che non lo hai avvisato subito perché volevi che proteggesse Letis.

«Belthar.» Clarion si guardò intorno, ma vide solo Belthar, le ombre della notte e le luci del bordello. «Sento una voce nella mente anche se non ho la maschera, e non ricordo minimamente di aver mandato Raglio ad avvisarti.»

Il gemito di piacere aumentò di volume. Le grida si mischiarono a un altro urlo di godimento dalla tonalità diversa, ma sempre femminile.

«Sei sicuro?» La voce di Belthar era molto più tranquilla di quanto Clarion si sarebbe aspettato.

«La mia ipotesi é manipolazione mentale» disse Clarion.

«Mettiti la maschera allora.»

Un lembo di cuoio pendeva dal retro della giubba di Clarion, strappato; ma la tasca dove teneva la maschera era davanti, integra. Clarion rovistò all’interno.

«Non ce l’ho.»

«Non suona bene.» Belthar si portò il pollice al mento e si grattò la mandibola con l’indice e il medio. «Dobbiamo avvertire il Teschio.»

Il vento sollevò un lembo della maschera a terra; ancora stretta tra le dita dell’uomo dalla voce profonda.

Non indossare quella maschera.

«A quanto pare la voce nella mia testa riesce a vedermi, e non fa parte del Kleg.»

Belthar spostò la mano sull’elsa del pugnale. «Come fai a dirlo?»

«Non sa che le maschere devono essere sintonizzate con il proprietario per avere il pieno effetto.» Clarion si chinò per perquisire un corpo a terra: quello con la faccia butterata, appoggiato contro il muro. Era stato lui a trascinarlo per i piedi, doveva essere l’Ombra. Il Pugnale, Ark, li seguiva a qualche passo di distanza; con le mani libere, pronto a intervenire. Come da procedura.

«Se senti cose che altri non sentono magari è un problema tuo.» Le dita di Belthar si allontanarono dal pugnale. Si spostò a controllare il corpo dell’altro uomo. «Quello che mi domando è perché hanno preso te e non me.»

Sulla cintura dell’Ombra Clarion trovò un pugnale; lo sfoderò e tagliò i bottoni della giubba. L’intensità della zaffata di sudore lo colse alla sprovvista. I peli ispidi del butterato uscivano dal colletto della camicia interna, chiazzata di macchie umide sotto le ascelle e sul petto.

Clarion arricciò il naso mentre passava la mano all’interno della giubba. Niente. Tastò il petto e l’addome, alla ricerca di tasche nascoste sulla camicia. Eccolo. Usò il pugnale; facendo attenzione a tagliare il tessuto, ed estrasse un biglietto umidiccio, con un sigillo di cera rossa, spezzato.

«Trimedina.» Belthar fissava l’interno di una fiala trovata sull’altro; l’annusò e storse il naso. «È quella che hanno usato su di te.»

Trimedina? La Trimedina faceva dormire per ore. Esisteva un controreagente, ma dava comunque la nausea e Clarion non sentiva niente. Anzi, si sentiva più in forma del solito.

Lanciò un’occhiata al compagno: Belthar gli dava le spalle. L’assassino grugnì soddisfatto del ritrovamento, ripose la fiala in una borsa e girò il corpo svenuto per completare la perquisizione.

Clarion aprì il biglietto e lo spostò alla luce lunare, rimase a controllarlo per alcuni istanti; lo girò davanti e dietro.

Sulla carta c’era solo un nome scritto in inchiostro nero: “Clarion”. L’inchiostro nero voleva dire “da catturare vivo”, ma perché? Perché solo lui? Clarion lo accartocciò e lo lasciò cadere nel fiume; vide il biglietto scomparire nella notte, trascinato via dalla corrente.

«Questo era il Pugnale. Il biglietto con il bersaglio dovrebbe essere sul tuo.» Belthar lasciò andare il corpo e si girò a fissare Clarion.

«La tasca interna era vuota.» La lingua di Clarion era secca come un pezzo di cuoio.

«Rinnegati?» Belthar si sedette su una cassa di legno, appoggiando le spalle al muro. «Dobbiamo contattare il Teschio.»

Al nome del Teschio il cuore di Clarion accelerò: ogni battito faceva vibrare le costole in una melodia di terrore. L’inchiostro nero poteva essere un buon segno, ma essere presi vivi poteva anche trasformarsi in un incubo.

Controllo. Doveva controllarsi.

«Prima scopriamo cosa sta succedendo.» La schiena doleva, la scheggia di legno doveva essere grossa. Clarion si portò le mani alla schiena, per estrarla. «Il Teschio potrebbe essere sotto sorveglianza.»

Una donna dai capelli castani si sporse dalla finestra e sorrise, agitando la mano.

«Se seguono la procedura a questo punto avranno Letis.»

«Saresti dovuto rimanere con lei, Belthar.»

Belthar stava analizzando la donna con attenzione. Questa probabilmente fraintese le sue intenzioni: prese l’avanti del vestito e lo abbassò mettendo in bella mostra il seno. Prosperoso, ma i capezzoli erano un po’ troppo larghi per i gusti di Clarion.

«Sei tu che mi hai chiamato, Cla.»

«O così ha detto Raglio.» La scheggia sfregò contro la pelle di Clarion, causando un’ultima fitta di dolore; e alla fine uscì. «Io non lo ricordo.»

Clarion gettò la scheggia insanguinata nel fiume e tornò a studiare la donna. Era una delle ragazze del posto; muta dalla nascita, o così gli aveva detto Letis.

Si stava accarezzando il seno e non sembrava preoccuparsi per gli uomini svenuti. Con un po’ di fortuna li aveva scambiati per ubriachi oppure...

«La riconosci?» chiese Clarion. «Non dirmi che è quello che penso»

«Pensi che sia del Kleg?»

La donna con il seno scoperto portò le dita alla bocca; lanciò un bacio a Clarion, e rientrò.

«Che altro dovrei pensare?»

«Non saprei. Pensi che il Kleg manderebbe una che conosco?»

«Magari si è scoperta per sbaglio.»

«O magari sei un coglione.» Belthar si alzò dalla cassa e si avvicinò al compagno, lo prese per le spalle e strinse. «Cla, sei un operativo, no? Ti hanno addestrato per le operazioni nere.»

Clarion assaporò l’aria della notte: era fresca e umida. L’odore del fiume si mischiava alla tipica fragranza dello scarico fognario. «Belthar, ti avviso, se la hanno presa...»

«Niente se. Ci serve un piano.»

 

II

 

Gli avventori seduti ai tavoli mostravano diversi stati di ubriachezza, ed erano accompagnati da donne in diverso stato di nudità. Un uomo pelato aveva in braccio due donne vestite con veli di seta, una per ogni gamba. La brunetta era la muta di prima; gli accarezzava la guancia mentre la castana gli infilava le mani sotto la giubba.

Clarion aveva in mano due boccali di birra e stava attraversando la sala, attento alle minime espressioni di tutte le persone intorno.

Il profumo di rose e lamponi pervadeva la stanza illuminata a festa, come sempre. Le zone più in ombra erano quelle dietro le tende laterali: ottime zone per appartarsi, e anche per nascondere un balestriere.

Un ragazzino con un labbro leporino sbucò da un tavolo adiacente; prese la gonna di una cameriera e tirò con entrambe le mani, spogliandola dalla vita in giù. La cameriera lanciò uno strillo, cercando di acchiapparlo, ma lui balzò dietro la sedia di un signore paffuto. Allora la donna si piegò, lentamente, facendo per recuperare la gonna; intanto avvicinò il sedere alla faccia del signore paffuto.

Il ragazzino si allontanò di corsa, con lo sguardo puntato verso lo spettacolo; e finì a sbattere contro il fianco di Clarion. Spruzzi di birra schizzarono sul farsetto e sulla faccia di Clarion, ma riuscì a non perdere la presa sui boccali. Il ragazzino indietreggiò; prima lo fissò con aria preoccupata, poi gli fece la linguaccia, resa ancora più orrida dal labbro leporino. Clarion avanzò di un passo per inseguirlo, ma si bloccò quando sentì un rivolo di schiuma bagnargli la mano. Il ragazzo ne approfittò per dileguarsi dietro al bancone.

Diavolo. Quel ragazzino sì che aveva talento: era un attore decisamente migliore rispetto alla finta cameriera.

«Solo un riscontro: il pelato con la bruna di prima, al tavolo vicino all’uscita. Mi ha seguito con la coda dell’occhio per tutto il tragitto.» Clarion prese posto a un tavolino di fronte a Belthar. «Penso ce ne siano altri alle scale del secondo piano.»

Belthar prese un boccale e sorseggiò la birra, agitando una mano per allontanare una biondina sorridente. «Sei sicuro che il ragazzo sia assennato?»

Il ragazzino dal labbro leporino era ricomparso da dietro il bancone e stava uscendo da una porta laterale. Clarion mugugnò con approvazione. Quella porta dava alle cucine: una buona scelta.

«Confido in lui. Ha preso il biglietto che avevo alla cintura.»

«Come faceva a sapere che era lì?»

Clarion distolse lo sguardo dagli occhi scrutatori di Belthar.

«Lo hai addestrato?» Il tono di Belthar aveva una vena di minaccia.

«È il linguaggio dei segni che usano nei vicoli. Li conosceva già.»

Belthar socchiuse le palpebre, e prese un altro sorso. Schioccò le labbra.

«Veleno anche qua. L’oste è al corrente.»

«I contro reagenti che abbiamo preso basteranno?»

«Puoi stare tranquillo per ora.» Belthar buttò giù un’altra sorsata.

Clarion annuì, ma non sentiva tutta questa voglia di bere. Anche l’oste? E pensare a tutte le mance che gli aveva lasciato...

«Letis sta male da due settimane: sarà un problema spostarla» disse Belthar.

«Gli orfani si inventeranno qualcosa.»

Gli occhi di Clarion puntavano al bicchiere, ma l’attenzione era fissa sui movimenti di un uomo a destra. Aveva tirato una pacca sul sedere di una cameriera, ma era un po’ troppo vicino.

«Come hai fatto a convincerli?» L’alito di Belthar sapeva di birra e menta: il sapore del controreagente.

L’uomo sospetto sghignazzò; si allontanò mano nella mano con la cameriera che aveva adocchiato. Falso allarme. O magari si era accorto di essere controllato.

«Sono i bambini dell’orfanotrofio distrutto, vero?» Lo sguardo di Belthar non prometteva niente di buono.

«Quelli sani almeno. Gli altri non li hanno presi» disse Clarion.

«Li hanno presi gratuitamente?» Belthar tamburellò le dita contro il bicchiere. «Le Figlie della Notte sono aspiranti nutrici adesso?»

Clarion alzò le spalle e si lasciò andare sulla sedia.

«No, vero? Sei tu che paghi per mantenerli.»

Clarion fece una smorfia e parlò scandendo le sillabe. «Sì. Pago le Figlie della Notte perché a quanto pare un’Ombra del Kleg che paga le mignotte è meno sospetta di una che paga per mantenere degli orfani. Sei soddisfatto?»

Nel profondo degli occhi di Belthar si annidava qualcosa, una cosa che Clarion non riuscì del tutto a identificare.

«Quel Raglio, non pensi che ce la farà, vero?» riprese Belthar.

Clarion e Belthar si fissarono, e presero un sorso a testa.

I muscoli intorno agli occhi di Belthar si tesero, e per un istante Clarion ebbe l’impressione di aver riconosciuto un’ombra di tristezza nello sguardo del compagno.

«Cosa faremo quando avranno Letis?» chiese Belthar.

I polpastrelli di Clarion accarezzarono il boccale: era umido per la condensa, e fresco. Veniva direttamente dalla ghiacciaia di sotto, veleno compreso nel prezzo.

«Stiamo parlando del Kleg, Belthar.» Clarion scosse la testa e sorrise con tristezza. «Se prendono Letis io mi consegno.»

«Sei sotto controllo mentale?» Di nuovo, un’altra emozione sul volto di Belthar: delusione. O forse erano solo le ombre delle lampade.

«Non ricordo di aver detto a Raglio di mandarti un messaggio.» Clarion appoggiò il boccale; aggrottò la fronte per sforzarsi, ma niente. «Eppure ritengo non ti abbia mentito. Quindi sì: sono un rischio.»

Una ragazza scese le scale assieme a un uomo dai capelli brizzolati; gli sorrise con affetto, lo abbracciò, lo baciò e infine risalì gli scalini. Forse era una del Kleg venuta a controllare come mai tardavano.

«Che cazzo ti succede, Cla? Secondo Moina e il Teschio ci sono tre Dormienti. Uno è nel Ludum, l’altra è prigioniera. Ce ne manca solo uno. Non puoi mollare ora!»

Clarion aprì le braccia e indicò un punto in mezzo al petto, parlando con calma. «Vuoi ammazzarmi? Fallo. Ma non metterò a rischio Letis.»

Le luci delle lampade ai lati dell’entrata tremolarono; due uomini in uniforme varcarono la soglia. Bracchi. Clarion li escluse: troppo evidenti per essere del Kleg, troppo pochi per essere una squadra di caccia.

«Il Teschio cercava un’Ombra, sai? Ma dubitava di tutti nel Kleg.» Belthar piantò l’indice sul tavolo, come per sottolineare le parole. «Io consigliai di chiedere a Letis. Letis ti conosceva da quando ancora avevi una famiglia, e indicò te. Sai perché ci ha aiutato?»

«Perché gli Inquieti hanno stuprato sua madre mentre uccidevano suo padre a bastonate e hanno gettato le teste dei suoi fratellini nella fontana di casa.»

Belthar strinse i pugni e mostrò i denti; ma si limitò ad annuire.

«Non oso immaginare in che situazione fosse quando la hai salvata, Belthar.»

Autentica rabbia, non veniva trasmessa dall'espressione impassibile, ma dalle due scintille dentro agli occhi di Belthar. «Se lo sai già, sai che dobbiamo fermare gli Inquieti. Costi quel che costi.»

«Le cose sono cambiate per Letis.» Clarion appoggiò i gomiti sul tavolo. «Mi ha convinto a finirla con le missioni nere. L’ho già detto al Teschio. Ha rifiutato, ma troverò un’altra soluzione.»

Belthar scosse la testa, come stordito da una martellata. «Come…»

«Troverete qualcun altro.»

«Tu non puoi…»

Avrebbe voluto aspettare, ma la situazione era degenerata. Letis lo aveva pregato in tutti i modi di aspettare, voleva essere lei a dirglielo. Ma Clarion sentiva di dovere delle spiegazioni al compagno. Spiegazioni sincere.

«Letis aspetta un bambino.»

Belthar rimase a bocca aperta.

Clarion vide il riflesso di una torcia muoversi negli occhi del compagno. Voltò di poco la testa e la vide di nuovo. La torcia passò davanti alla finestra per la seconda volta.

«Il segnale. Dobbiamo muoverci» disse Clarion. «Se riusciamo a salvare Letis sono con te.»

Clarion si alzò, per dirigersi verso la porta. Sentì alle spalle il rumore del cuoio e di Belthar che si alzava.

Il pelato spostò con gentilezza la donna velata che gli stava mordicchiando l’orecchio. Appoggiò una borsa tintinnante sul tavolo e, con tutta calma, avanzò verso l’uscita.

Clarion si girò di colpo e scattò verso la finestra dove aveva visto la torcia. Saltò e andò a sbattere contro il supporto di legno. La finestra si spalancò verso l’esterno. Era aperta. Tutto secondo i piani.

Appoggiò una mano sulla pietra fredda e umida; rotolò per rimettersi in piedi e continuare a correre. L’aria della notte era fresca e si sentiva lo sferragliare di armature in avvicinamento.

Un gruppo di guardie stava marciando dall’altra parte del fiume. Eccola là, la squadra di caccia.

«Affrettatevi!» Un lembo di pelle pendeva sulla fronte del ragazzino e la faccia era sporca di scarlatto. Il sangue scorreva di fianco al labbro leporino.

Era davanti a loro e indicava una piccola barca: una di quelle usate dai clienti per avere più riservatezza. «Là, quella.»

L’acqua del fiume Alepp era nera come la notte, rifletteva il cielo coperto di nuvole.

Clarion e Belthar balzarono insieme. La barca ondeggiò all’atterraggio e Clarion si lasciò cadere per proteggersi dietro al ponte di legno, di fianco a Belthar. Raglio lasciò andare gli ormeggi e si chinò in mezzo a loro.

Un quadrello di balestra si piantò sul pennone con uno stock.

«Dicci quando.»

Raglio sporse la testa per guardare il canale mentre si puliva la fronte insanguinata con la manica. Il tessuto grondava sangue.

Nessun fischio di balestra: probabilmente i Bracchi pianificavano di bloccare le uscite sul fiume.

«Ora!» Il sussurro di Raglio si tramutò in una nuvoletta di alito nella notte.

Belthar e Clarion si lanciarono nell’oscurità. Clarion atterrò su qualcosa di duro; scivolò e cadde, sbattendo la faccia nella fanghiglia. La mano di Belthar lo afferrò per la collottola e lo sollevò per trascinarlo in un cunicolo.

Clarion si alzò, sputacchiando. La puzza di merda e pesce marcio saturavano l’ambiente.

«Com’è andata, Raglio?» chiese Clarion.

«Ci siamo riusciti.»

 

III

 

Una mano prese il braccio di Clarion per tirarlo verso destra; inciampò su un gradino, ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Cadere una volta nella melma gli era bastato. Sentiva ancora in bocca il gusto di fogna: era così intenso che ogni tanto doveva trattenere i conati di vomito.

«Quanto manca, ragazzo?» sussurrò Belthar.

«Fermatevi. Siamo arrivati.»

L’eco delle parole faceva ipotizzare una stanza più ampia del cunicolo. Si sentiva il gocciolare lento e viscoso della fogna, e c’era anche un suono più sinistro: un respiro sibilante.

Lo sfrigolio di una pietra focaia fu seguito da due lampi di luce. Clarion riconobbe solo un canale di scarico in secca, dei funghi bianchi sulle pareti e un cumulo di stracci in un angolo.

La torcia si accese con un sibilo, illuminando la zona e accecando Clarion. Impiegò un paio di secondi per abituare gli occhi alla luce, prima di riuscire a riaprire le palpebre.

La stanza non era così ampia come sembrava, ed era stranamente calda; sbuffi di vapore puzzolente salivano dal pavimento. L’aria era umida, ma almeno la camera non era sommersa dalla melma.

Il respiro proveniva dagli stracci abbandonati a terra: coprivano una donna con la faccia dal colorito verdastro, e un taglio sulla guancia.

Era Letis.

Clarion si avvicinò alla donna e le appoggiò la mano sulla fronte: scottava, era peggiorata. «Calma, fai piano.»

Un ratto saltò fuori dagli stracci, squittendo, e scomparve in un crepa del muro.

Gli occhi di Letis si aprirono e si richiusero, molto lentamente. «Clarion.» La donna strusciò la guancia sul dorso della mano di Clarion.

«Siete stati eccezionali.» Clarion si girò verso il ragazzo. «Dove sono gli altri?»

«Hanno preso Syrin e Cipolla.» La voce di Raglio era provata, stava lottando per mantenere il controllo. «Stabs e Milla sono… sono morti.»

La mano di Belthar si appoggiò sulla spalla del piccolo.

«Tutto per la signora gentile.» Gli occhi di Raglio erano lucidi, e l’angolo sano delle labbra si curvava verso il basso. «È caduta mentre la tiravamo giù con la corda.»

Clarion aprì la bocca per parlare. Voleva dirgli: ‘non avreste dovuto spingervi a tanto’, ma era tardi. Dei bambini erano morti, seguendo un suo ordine.

«Come è successo?»

«Abbiamo... c’era ancora…»

Clarion gli appoggiò una mano sul braccio, sulla manica sporca di sangue; strinse con gentilezza, per incoraggiarlo.

«Uno degli uomini era ancora nella camera» disse Raglio.

Clarion sentì il cuore stringersi nel petto. Aveva valutato e scartato quella possibilità. Non potevano sapere degli orfani. No, non potevano…

«Sanno che conosciamo le procedure. Si saranno adattati» disse Belthar.

Clarion aveva scartato anche quella possibilità. Ma era la risposta più probabile.

Fissò il taglio slabbrato sulla fronte di Raglio. Il sangue aveva smesso di scorrere, ma aveva lasciato un’ombra scarlatta di fianco al labbro leporino del ragazzo.

«Come avete fatto a superarlo?»

«Ha ucciso Stabs e Milla.» La voce del ragazzo tremolò, ma si riprese subito. Cos’erano diventati quegli orfani sotto la protezione di Clarion? «Poi c’è stato un rumore, è inciampato ed è caduto.»

«Un rumore?» chiese Clarion.

«Come una vespa. Una vespa grossa.»

«Cos’è successo dopo?» Belthar si inginocchiò per stare all’altezza del ragazzo.

«Abbiamo legato la cara signora per farla scendere dalla finestra.» Gli occhi di Raglio luccicavano al bagliore della torcia. «Poi sono arrivati. Ci è caduta... io sono saltato.»

Clarion si rese conto che il ragazzo non muoveva il braccio sinistro. Quello pulito.

«Va bene.» Clarion gli porse una borsa tintinnante. «Torna su e vai al tempio, dagli questi e fai controllare…»

«Tu dove vai?»

«Noi difendiamo la signora gentile.» Clarion lanciò un’occhiata a Letis: la donna aveva gli occhi chiusi e un’espressione sofferente.

«Voglio stare con voi.»

«No Raglio, quel braccio…»

«Quale braccio? Io sto bene.» Raglio sollevò il braccio sinistro di una spanna. Stava tremando dal dolore, e una goccia di sudore gli scivolò sulla fronte.

«Fermati.»

Il braccio tornò inerte al fianco del ragazzo. «Nessuno conosce questi posti come me.»

Che diavolo aveva fatto per meritarsi la fiducia del ragazzo?

«Puoi fare una cosa per aiutarci.» Belthar girò il ragazzo verso di sé. «Ricordi il messaggio che mi hai portato?»

Raglio annuì, spostando lo sguardo.

«Clarion?» La voce di Letis, la donna stava sbattendo le palpebre. «Dove siamo?»

«Va tutto bene. Adesso ti portiamo al sicuro.» Clarion le accarezzò la fronte, spostandole i capelli per esaminare la ferita. Sembrava solo un taglio e un brutto livido. Probabilmente era caduta male per evitare di atterrare sulla pancia.

«Sta succedendo?» Letis si rivolse a Belthar.

Belthar annuì.

«Clarion.» Letis fu interrotta da una smorfia dal dolore. Si riprese e gli rivolse un sorriso sofferente. «Non arrenderti.»

Clarion le appoggiò una mano sul grembo e la donna la prese. Gli veniva da piangere. «Voglio salvarti.»

«Se ti arrendi mi passerà la febbre?» Più la voce di Letis si abbassava più l’ansia di Clarion cresceva.

«Avrai le cure.»

«Non voglio altre sanguisughe.» La voce di Letis era un sibilo. Tossì e annaspò.

«Moina. Moina mi ha detto che…»

Lo sguardo di Letis si adombrò. «No.»

«Io farei di tutto per te. Basterebbe...»

«Non Moina.» Lo sguardo di Letis mostrava rabbia oltre la febbre.

Clarion digrignò i denti. Itis, Belthar, Moina e tutto il resto della merda di quella città. Perché diavolo doveva andare in quel modo?

«Farasti tutto per me?» chiese Letis. «Aiuta Belthar: salva Itis.» Letis si lasciò andare nel suo angolo asciutto, sotto gli stracci. «E dopo ricorda la promessa: basta missioni.»

Clarion portò un pugno alle labbra, morse la nocca.

«Dei bambini sono morti, per me.» Le rughe di sofferenza diminuivano, Letis sembrava quasi in pace: si stava addormentando. «Vendicali.»

Clarion strinse il pugno. Dopotutto, forse poteva riuscirci, forse era la cosa migliore da fare.

«… e se ci riesci mi farò vedere da Moina.»

Clarion trattenne le lacrime, guardò Raglio e sorrise.

Sì, cazzo. Salviamo Itis.

Davvero? Faresti tutto per lei?

Letis sbarrò gli occhi; aprì la bocca, spalancandola sempre di più. Il suono che ne emerse fu un urlo straziante. Le tonsille vibrarono e Clarion ebbe paura che la mascella potesse spezzarsi.

Puoi farlo smettere.

«Va bene. Farò tutto quello che vuoi, va bene!» urlò Clarion, stringendola. Sentiva le convulsioni dei muscoli di Letis; le urla della donna gli facevano tremare le ossa.

No, non così in fretta.

Le dita di Letis si strinsero sul braccio di Clarion; le unghie si piantarono nel vestito. Clarion le sentì graffiare la pelle, ma non ci badò. La donna iniziò a tremare convulsamente, prendendo più respiri.

«Letis, Letis. Mi senti? Ci sono qua io.»

La donna lo fissò con gli occhi spalancati. Linee rosse pulsavano oltre l’iride e le vene del collo si muovevano come se dei vermi strisciassero all’interno. Una macchia nera si stava allargano all’altezza della giugulare. La pelle della donna bolliva; Clarion sentiva scottare.

Sì, si. Ora ti sente.

Letis prese un altro respiro, emise dei singhiozzi senza riuscire a urlare. Arcuò la schiena strisciando i piedi, lasciando scie nella polvere per terra. Lottò per prendere un altro respiro.

Poi il corpo ricadde tra le braccia di Clarion, flaccido.

«Letis, ti prego, Letis.»

No. Ora non ti sente più.

«No. No. No.» Clarion appoggiò la testa sul seno della donna.

Nessun battito.

Rimase ad ascoltare. La scosse.

«No, ti prego no.»

Nessun battito.

Ops. Forse ho esagerato.

Clarion sentì il labbro che gli tremava; una goccia di bava si mischiò alle lacrime che si versavano sul vestito di Letis. Una mano lo prese per la spalla, per allontanarlo.

La scostò. Nessuno lo avrebbe spostato. Nessuno.

Clarion aveva la sensazione di aleggiare in una nebbia rossastra.

Letis annaspò. Tremò tra le braccia di Clarion. Ammiccò, gli occhi cerchiati e pieni di vene rosse.

E invece guarda un po’! Si è salvata!

Clarion si sentì bruciare dal sollievo. La strinse, trattenendo i singhiozzi e continuando a pronunciare il suo nome, accarezzandole i capelli sporchi di merda.

Sai cosa facciamo? Via un po’ di febbre.

La pelle di Letis diventò più fresca, il battito regolare. Lo sguardo più limpido, ma stanco.

Clarion sospirò, lasciandosi andare in un abbraccio.

«Clarion?» disse Letis.

«Va tutto bene.»

«Clarion?» chiese Belthar.

«State indietro.» Clarion prese un lungo respiro. Controllare le emozioni, mantenere il controllo.

Assai avveduto. Non farli sospettare.

Clarion lasciò andare Letis, e la guardò.

L’urlo di Letis continuava a echeggiare dentro di lui. Lo sguardo stralunato e in agonia si era impresso nella mente.

Si sentì come imprigionato in una gabbia dove sbatteva per cercare di liberarsi, urlante. All’esterno rimase impassibile.

Confido che ora sarai più coscienzioso.

Clarion si voltò, mantenne lo sguardo privo di emozioni di fronte all’espressione preoccupata di Belthar.

«Un figlio?» La gelosia traspariva dall’espressione di Raglio.

«Si avrai un fratellino.» Clarion riuscì a sorridere; ma il sorriso era gelido, lo sguardo minaccioso. Raglio fece un passo indietro, spaventato.

Seguirai le mie direttive, costi quel che costi.

Belthar lo stava squadrando, in dubbio.

Vai all’Ultima Bloccarda. Nella prigione dove tengono Sarabi.

«Il primo passo è andare all’Ultima Bloccarda.» Clarion sollevò una mano per fermare le obiezioni. «Sospetti anche tu dei Dormienti, no? Voglio interrogare di nuovo la prigioniera.»

«E loro?» Belthar indicò con una mano Letis e con l’altra Raglio.

Ci vai da solo.

Clarion annuì. «Vado da solo.»

«Da solo?» Belthar mosse la mano verso il pugnale. Forse era solo una reazione istintiva, o forse aveva fiutato l’inganno.

È amico tuo, no? Risolvila tu.

«Se hanno catturato i ragazzi arriveranno a questo nascondiglio. Se prendono Letis sai già cosa farò. Scegli tu.»

La tua dedizione mi commuove.

«E cosa pensi di fare?» Lo sguardo di Belthar era scettico. «Entri nella bloccarda da solo? Dimentichi che il Kleg ti sta cercando? No.»

In effetti sembrava un’idiozia.

«Io vado in avanscoperta e voi passate dalle fogne. Ci incontreremo là.»

Letis annaspò, gemette dal dolore e prese due respiri. Rantoli di dolore. La donna si avvicinò la mano alla gola.

«Se qualcuno ha un consiglio migliore lo dica» disse Clarion ad alta voce.

Ti concedo il beneficio del dubbio.

Il braccio di Letis tornò a rilassarsi, il respiro regolare.

«Il ragazzo può trovare anche da solo...»

«Volevi un piano da me. Ora ce l’hai.» Clarion si allontanò nella fogna. «O fai quello che dico, o mi ammazzi, o fai rapporto dal Kleg.» Non si voltò a controllare, ma non sentì nessuno che lo seguiva.

Non ti serve la torcia, esci dalla botola nel prossimo corridoio. Lì troverai la tua maschera.

 

IV

 

La maschera rese tutto più nitido. La notte stessa sembrava diventare più buia.

Le persone si erano tramutate in sagome rosse di calore. I pochi incrociati lungo il tragitto si affrettarono a cedere il passaggio per allontanarsi fuori dalla sua vista.

Fino a quando non raggiunse la bloccarda.

Una raffica di vento fece schioccare la bandiera di Itis sopra il portone d’accesso: raffigurava una spada centrale, circondata da sei pugnali. Lo sfondo era blu notte. Lo stesso colore delle uniformi dei Bracchi.

«Nome e ragione della visita.» Le guardie, due Bracchi, incrociarono le alabarde, bloccando il passaggio. I loro volti erano illuminati dalle torce, ma Clarion si concentrò per mantenere attiva la visione al calore solo sui loro corpi.

«Ceridan. Svolgo un’inchiesta sulla demone. Nome del soggetto: Moina dell’Abisso.»

La guardia a destra era più giovane, portava i gradi di soldato semplice e fissava la maschera di Clarion con timore. Quello a sinistra era un sergente con una cicatrice sulla fronte, più sicuro di sé. Ma non erano loro a preoccuparlo, il vero problema era la feritoia nel muro sopra di loro: lì c’era sempre un balestriere pronto a colpire.

Di sicuro stava controllando i registri mentre loro discutevano.

«Un attimo solo.» La mano del sergente strinse l’alabarda; il volto dal colore arancione divenne rosso vivo: sangue alla testa. Aveva fiutato l’inganno e stava aspettando la conferma del balestriere.

Dalla feritoia uscirono bagliori azzurri; la luce spettrale illuminò a intermittenza la bandiera di Itis e infine si estinse. Clarion si rilassò, come se fosse tutto a posto, rimanendo a fissare il sergente.

«Non ho fretta» disse Clarion.

La feritoia vomitò una lucina grigia, insieme a un ronzio. Il bagliore calò in picchiata e sparì dietro la testa del sergente. La guardia portò una mano alla nuca, come sorpreso dalla puntura di un insetto.

Il più giovane si girò, tutto il corpo di colore rosso vivo. Il ronzio aumentò di volume e la lucina saettò in linea retta verso il collo del giovane.

Il sergente avanzò di un passo, barcollante.

La guardia più giovane agitò l’alabarda per intercettare la lucina. Senza successo.

Il bagliore raggiunse il bersaglio: si appoggiò sul gozzo e balzò via con un lampo di luce, seguito da uno spruzzo scarlatto.

Il sergente finì per terra a peso morto, di faccia. L’alabarda del giovane cadde di fianco; il metallo rimbalzò sulla strada, alzando schizzi di ghiaia intorno.

Il giovane portò entrambe le mani alla gola, come se stesse cercando di strangolarsi. Un rivolo di sangue, rosso di calore, gli fluì tra le dita mentre si accasciava contro il muro.

La lucina ronzò verso Clarion, lasciando dietro di sé una scia luminosa di colore grigio; si bloccò a un solo braccio di distanza, all’altezza degli occhi.

Clarion avrebbe potuto toccarlo. O meglio, toccarla. La luce proveniva da una donna minuscola. Due fasce le coprivano i seni e si incrociavano all’altezza dell’ombelico; portava dei pantaloni in cuoio e le ali sbattevano così velocemente da non essere visibili.

Lo fissava. Con in mano due piccoli pugnali insanguinati.

La fatina rinfoderò le armi e fece cenno con la manina di avanzare; fluttuò verso l’alto e scomparve nella feritoia.

Raggiungi la cella e libera Sarabi. La voce aveva una tonalità difficile da distinguere, ma poteva essere femminile. La fatina?

Il pavimento dentro l’edificio era di roccia grigia, consumata al centro dal passaggio dei precedenti abitanti. In passato quella struttura era stata un ospedale per i soldati di ventura, poi riadattata a caserma per difendere i quartieri dei ricchi dalle rivolte dei poveri.

Le stanze per gli interrogatori erano nell’ala opposta rispetto ai dormitori; ma di solito c’era una coppia armata di ronda durante la notte. Eppure Clarion attraversò solo corridoi vuoti.

Facile, troppo facile: ci doveva essere lo zampino della fatina.

Nell’anticamera della sala interrogatori trovò 3 sgabelli vuoti, ma questo era già più consueto. Quando un demone interrogava il soggetto non serviva altra sicurezza.

Sul muro c’era una torcia accesa da una parte e un appendino dall’altra. Sulla gruccia era appoggiato un vestito in seta rossa, e una stola di pelliccia di volpe. Sul pavimento al di sotto c’erano due scarpe rosse con il tacco, ciascuna con una perla nera.

Clarion studiò l’ambiente. Due uscite: l’accesso da dove era arrivato e la porta di quercia con uno spioncino chiuso. Muri, pavimenti e soffitto erano di pietra: ben poco su cui lavorare.

Da uno sgabello pendeva un lembo di tessuto. All’inizio lo aveva scambiato per uno straccio, ma poi lo riconobbe. Lo aveva già visto strappare da un corpo: un lembo di pelle umana.

Il cuore accelerò; ogni battito diventava una pulsazione di calore alla testa. Clarion si chinò contro il muro, annaspando per prendere aria; ma la sensazione di soffocamento aumentò. Si strappò la maschera; e la stanza iniziò a ondeggiare. La sensazione gli riportò alla mente alla mente altri ricordi. Il braccio mozzato di un bambino che affondava nel fango... i gorgoglii supplicanti di una donna che annegava nel proprio sangue... l’odore di un cadavere dissotterrato...

Un attacco di panico. Clarion scosse la testa: doveva resistere. Doveva solo allontanare quelle emozioni, renderle prive di colore. Doveva farlo per Letis.

Prese una boccetta dalla borsa, strappò il tappo con i denti e la girò. Vuota.

Il cuore voleva scoppiargli nel petto.

Agitò la mano una volta. Di nuovo. Una goccia solitaria cadde sulla maschera. Etere.

Lo spinse contro le narici e prese un unico respiro, assaporandone l’odore e facendosi confortare dall’abbraccio caldo dell’oblio. I ricordi si sciolsero in una nube nera e indistinta.

Le sensazioni si erano attutite e per un attimo ebbe difficoltà a mantenere l’equilibrio, ma si riprese in fretta. Si allontanò dal muro, ricominciando a respirare normalmente: riuscì a focalizzare l’attenzione sulla porta.

Chiuse la mano a pugno e batté due volte sul legno; si fermò per un istante e batté altri tre colpi.

Rispose uno sbuffo risentito.

Zoccoli sbatterono sul pavimento, sempre più vicini; e si fermarono dietro la porta. Lo spioncino si aprì di colpo, rivelando due pozze color ocra: occhi, senza iridi né pupilla che riflettevano la luce delle torce.

Lo spioncino si chiuse e la porta si spalancò, sbattendo contro il muro.

Una donna dai capelli color rubino occupava la soglia. Portava zoccoli di legno, macchiati di rosso, da cui spuntavano unghie smaltate di nero. Il grembiule di cuoio gli andava stretto ai fianchi e il seno spingeva sul tessuto, facendo risaltare una macchia di sangue al centro del petto, larga quanto una mano. La donna impugnava un coltello da cui gocciolava sangue.

Gli sorrise mettendo, in mostra una fila di denti, tutti appuntiti come canini. Sollevò la mano con il coltello e allungò indice e medio. Avanzò le dita fino a toccare lo sterno di Clarion.

«Un due tre per Clarion. Sei preso.»

Clarion abbassò lo sguardo sulla giubba e notò una macchietta di sangue lasciata dalle dita di Moina. Rialzò la testa.

«Non sai giocare a nascondino?» disse Moina.

«Se rispondo di no avresti la pietà di evitare battute idiote?» Clarion si rese conto di stringere con forza la maschera. La ripose nella tasca.

«No? Posso spiegartele. Le regole del nascondino sono molto utili quando tutta Itis ti sta cercando.»

«Nessuna pietà quindi.» Clarion le appoggiò una mano sulla spalla, per scostarla ed entrare nella cella. Un braciere ardente illuminava la stanza, insieme a due torce alle pareti.

Al centro della camera c’era una donna completamente nuda; con le caviglie fissate a una sedia da due ceppi e le braccia incatenate ai braccioli. Uno stiletto le spuntava dalla clavicola, piantato nell’osso. Da lì un rivolo scarlatto scorreva lungo la pelle nuda, solcando la valle tra i seni, girando intorno all’ombelico per perdersi nella peluria tra le cosce; stava gocciolando sul pavimento. Uno straccio incrostato di macchie di pus le faceva da bavaglio. Gli occhi azzurri erano così umani, puntavano a Clarion e riflettevano la sofferenza, la supplica... come durante il linciaggio...

Scosse la testa. Doveva concentrarsi.

«È passato qualcuno prima di me?»

Moina si chinò in avanti, e voltò la testa a destra e sinistra, per controllare l’anticamera; e per mettere in mostra il sedere. Clarion si voltò, stufo dell’atteggiamento della demone.

Sentì la porta chiudersi. La demone emise un gridolino divertito; dal rumore degli zoccoli si capiva che stava saltellando.

«Ho capito, ho capito!» Moina balzò di fianco a Clarion e lo prese per il gomito, premendogli il seno contro il braccio. «Vuoi che ti interrogo, per farti fare le cosacce!»

Clarion si scostò e la spinse via. «Il Teschio ti ha ordinato di catturarmi?»

«Non ancora. Possiamo chiamarlo però!» Moina fece un cenno verso un piedistallo appoggiato su un tavolino, di fianco a un vassoio pieno di forbici, martelli e pinze.

«Ti hanno evocato per la mia squadra: per le operazioni nere.» Clarion studiò i muri della stanza: nessuna finestra, nessuna fessura. «I miei ordini prevalgono sulle altre disposizioni, finché il Teschio o Belthar non dispongono altrimenti.»

«È una interpretazione.» Moina mise la punta del pugnale insanguinato in bocca e ne succhiò l’estremità, con espressione pensierosa. «Il patto qua e là è un po’ vago.»

La prigioniera si contorse per liberarsi; ma riuscì solamente a far tintinnare le catene, senza spostarsi di un centimetro.

«Controlla se sono sotto influenza mentale, adesso. E se vuoi domani denunciami alle forze del male per abusi, o per sfruttamento. Potrai pensarci con calma.»

Moina sollevò il coltello, lo portò alle labbra ed estrasse la lingua, prendendo una lunga leccata di sangue.

«Va bene. Se sbagli al massimo avremo modo di riparlarne… nell’aldilà.»

Gli occhi ocra si fissarono in quelli Clarion; diventarono sempre più grandi fino a riempire tutto il mondo di quel colore. Le pareti, i capelli di Moina, il sangue per terra: tutto diventò di colore ocra.

«Preso» disse Moina.

Clarion sentì come se gli versassero gelatina calda nel cervello; si sentiva schiacciare. Ma riusciva a pensare lucidamente.

«Nessuna influenza mentale recente. Uh… aspetta. Qua c’è qualcosa.» Moina sorrise. «Un anno fa, ci sono i ricordi della influenza di una Lorelei. Dev’esserti piaciuto…»

«Basta.»

«Io comunque sarei stata meglio» Moina increspò le labbra tinte di scarlatto: i colori erano tornati. «Non c’è altro.»

«Qualcuno sta controllando questa camera con la magia?»

Moina appoggiò il coltello accanto agli altri strumenti e chiuse gli occhi.

«No. Né chiaraudienza, né chiaroveggenza.»

La demone si portò di fianco alla sedia e appoggiò una mano sulla spalla ferita della prigioniera, giocherellando con lo stiletto piantato nella clavicola.

Clarion cercò di mantenere lo sguardo solo sulla faccia di Moina, senza badare allo spettacolo; ma i gemiti di dolore arrivavano comunque.

«Belthar. Dove si trova?»

Le palpebre di Moina si abbassarono di nuovo; si mossero, come se gli occhi si stessero agitando al di sotto.

«È buio. Ci sono due persone con lui. Un ragazzino e, oh… e una troia moribonda.»

Moina strappò lo stiletto dall’osso della prigioniera; questa sussultò e fissò lo sguardo sulla punta dell’arma. Le pupille si erano rimpicciolite fino a diventare una capocchia di spillo.

«Sono controllati?» disse Clarion.

«Non so dirtelo da qua.»

«Appena arrivano controllali.»

«C’è qualcosa che dovrei verificare esattamente?»

«Passiamo a lei: cosa abbiamo scoperto dalla prigioniera.»

Moina ancheggiò intorno alla donna. Le appoggiò il braccio con in mano lo stiletto attorno alle spalle, e le si sedette sulle gambe.

«Il suo corpo ha delle strane capacità. Si rigenera più in fretta del normale.» Moina appoggiò lo stiletto sullo zigomo della donna. Il metallo riprese a scricchiolare mentre la prigioniera si contorceva. Il respiro si trasformò in una serie di ansimi.

«È umana?»

«Non proprio, ma c’è molto vicina. Però guarda qua.»

Moina spostò la punta dello stiletto sulla spalla della donna e premette, incidendo una linea rossa sulla pelle. La prigioniera si agitò, sbavando bava rosastra, ma il collare la bloccava sullo schienale. Le unghie di Moina si fecero largo nell’incisione e tirarono, piegando un lembo di pelle per mostrarne l’interno. «Sono delle specie di squame sotto-pelle, ma stanno svanendo con il tempo.»

Un brivido di freddo corse lungo la spina dorsale di Clarion, mentre fissava quello strato oliva pallido che sembrava una seconda pelle.

Moina infilò le unghie più a fondo. E tirò di nuovo. Lo strato di pelle pendeva appeso alla carne. Un altro strattone e il lembo di pelle si allungò, fino a staccarsi.

La prigioniera aveva gli occhi spalancati; fissava verso l’alto, continuando ad agitarsi per il dolore.

Moina porse il lembo di pelle gocciolante di sangue, ma Clarion agitò una mano per rifiutare. Il lembo volteggiò verso il pavimento; piegandosi su se stesso come tessuto di scarsa qualità.

«Quando l’avete scoperto?»

«Avete?» Moina si accigliò. «Ho! È solo grazie al-»

«Quando lo hai scoperto?»

«Due settimane fa. Il boia aveva deciso di farla essiccare al sole, senza darle da bere. Ma mi sembrava che le cose non stessero andando per-»

«Taglia corto.»

«Il sole aumenta il suo potere. La fa rigenerare più in fretta.» Moina spostò il suo peso sulle gambe della prigioniera; le si avvicinò. Si leccò una mano e strofinò le dita umide sulla faccia della donna, per pulire le macchie di sangue sotto all’occhio sinistro. «Manipolazione del calore. Non è la magia che usate voi mortali oggi. È magia antica. Non la vedev-»

«Come si lega alle fatine?»

L’espressione di Moina si fece più concentrata. Appoggiò la mano libera sulla fronte della donna e studiò lo sguardo spaventato della prigioniera. Tese i muscoli del braccio per bloccarle la testa.

Piantò lo stiletto sotto l’occhio. Spinse un gomito contro il petto della donna, per non farla agitare, mentre rovistava con la lama dentro l’orbita oculare della prigioniera. L’urlo era solo un fischio attutito al bavaglio. Dalle mani della donna scorreva un rivolo di sangue che ticchettava sul pavimento: le catene le mordevano la carne dell’avambraccio.

Moina fece leva con il coltello sullo zigomo. L’occhio sbalzò fuori dall’orbita, con un rumore viscido. Lo afferrò al volo e lo mostrò alla prigioniera.

«È la terza volta che gli cavo lo stesso occhio.»

«Ho detto: come si legano alle fatine?»

«Sulla loro magia non so altro.» Moina agitò l’occhio davanti alla prigioniera, lasciandolo penzolare dal nervo.

«Se vuoi interrogarla dovresti toglierle il bavaglio.»

«Si vede che sei un esperto di interrogatori, Cla.»

La demone aprì la bocca e sollevò la testa, lasciando penzolare sopra di sé l’occhio cavato. Lo addentò. Tirò fino a strapparne un pezzo, lasciando cadere un brandello di carne lacerato. Iniziò a masticare come se stesse gustando un frutto prelibato, attenta a farsi ammirare dalla prigioniera.

«Hai interrogato il quartiermastro?»

«No. È stato trovato morto, due settimane fa.»

Moina buttò a terra il resto dell’occhio e sollevò di nuovo lo stiletto. Verso l’orecchio.

«Cosa pensi di fare?» La voce di Moina era seria. Gli occhi brillavano di luce malvagia.

Clarion si accorse di avere la mano stretta sul polso di Moina. Cosa stava facendo?

Affrontarla non era verosimile. E non stava succedendo niente. Qual era il piano?

«Alzati e dammi lo stiletto.» Clarion allentò la mano.

La demone si leccò le labbra, e ammiccò.

«Anzi. Io dò gli ordini: esci da questa stanza.»

Moina ridacchiò. «Questo va contro agli ordini del Teschio.» La demone si alzò, si liberò della presa Clarion con un strattone; gli prese la mano e appoggiò sul palmo l’elsa stiletto.

«Un passo alla volta.» Moina portò le mani dietro la schiena, lasciando il petto scoperto. La punta dello stiletto a un dito di distanza dallo sterno. Un colpo pulito.

Moina lo fissava, l’espressione bianca. L’unico rumore nella stanza erano i piagnucolii della prigioniera. Uno stiletto sarebbe bastato? Clarion ne dubitava. E conosceva il patto: la demone poteva difendersi se provava ad attaccarla.

Eppure c’erano altre possibilità? Si preparò all’affondo.

I pensieri di Clarion furono interrotti da un ronzio fuori dalla porta.

Cosa stai aspettando? Qua il tempo passa.

La prigioniera iniziò a soffiare dal bavaglio, agitandosi sulla sedia. La mano di Moina si chiuse a pugno; le nocche sbatterono contro la tempia della prigioniera. La testa della donna rimbalzò da una parte e dall’altra per poi afflosciarsi sul collare di metallo.

«Cosa sta succedendo?» Preoccupazione. Se Moina fosse stata umana le rughe comparse sul suo viso sarebbero state preoccupazione.

«Qualcuno è in contatto telepatico con me. Scopri chi è.»

Gli occhi di Moina si ingrandirono di nuovo. Il mondo vibrò, sommerso da onde color ocra.

Cosa sta succedendo? Trasmise la voce.

«È schermato. Non posso raggiungerlo.»

«Parla con lui» disse Clarion.

Ti concedo solo un altro minuto.

«Non sono sintonizzata. Parlaci tu.»

«Non riesco.»

«Come non riesci?» Moina sollevò un sopracciglio.

«Non lo so.»

Clarion appoggiò un orecchio alla porta, ma il ronzio era finito.

«Provo a darti una spintarella.»

«Co-.» Clarion annaspò dal dolore, ma la fitta passò velocemente com’era arrivata.

Mi spiace. Sono costretto a…

Aspetta! Non farlo. Clarion ebbe la stessa sensazione che aveva quando indossava la maschera. Era abbastanza certo di aver trasmesso il messaggio.

Riesci a rispondere? Non mi lasci scelta.

«Fammi male. Nessun danno permanente, e devo riuscire a muovermi.» Clarion si avvicinò alla demone.

La luce negli occhi di Moina era preoccupante. Prese un pugnale dal vassoio e appoggiò la mano armata sulla spalla di Clarion. La punta di metallo gli sfiorava l’occhio.

«Nessun danno permanente.» Clarion sussurrò le parole, ma le scandì per bene.

Moina sorrise con tutti i denti appuntiti. Il pugnale gli premette sulla guancia, ma Clarion sussultò a causa di un’altra pressione.

La mano libera di Moina gli era scivolata tra le gambe, appoggiandosi gentilmente sui testicoli; la stretta era lieve e calda. Quasi sensuale.

«Yeaarg.»

Fu come se decine di spille incandescenti si infilzassero da tutte le direzioni, attraversandogli le palle per conficcarsi nel basso ventre e nelle cosce.

Clarion annaspò reggendosi alla demone per rimanere in piedi; fece per parlare, ma sentì di nuovo la stretta ai coglioni, seguita dal calore. Stavolta non riuscì a urlare, si limitò ad accasciarsi a terra.

La testa si appoggiò sul pavimento umido, la guancia atterrò nella pozzanghera di sangue.

«Basta?»

Clarion riuscì solo ad annuire.

«Piscerai sangue per un paio di settimane, ma ho toccato solo i nervi. Per il resto starai bene.» Moina si era chinata con lui, la mano ancora sui coglioni. Con l’altra gli accarezzava la guancia, tenendo il pugnale con due dita.

Mi ha scoperto. Trasmise Clarion. Ho fallito. Lascia stare Letis ti prego.

Se hai fallito non sei più di nessun aiuto. Riprova.

«Ancora. Deve sentirlo anche lui.»

Moina lasciò andare il pugnale e si sedette cavalcioni sull’addome di Clarion, premendolo a terra. Inserì le unghie dei pollici nell’incavo delle clavicole, sotto le spalle di Clarion. Premette.

Stelle rosse e ocra esplosero davanti agli occhi di Clarion. La visione si stava sfuocando, riusciva solo a distinguere un sorriso pieno di denti appuntiti.

Posso risolvere il bersaglio secondario. Trasmise Clarion, tra le esplosioni di agonia.

Come? Trasmise la voce.

Il dolore passò in fretta com’era venuto, lasciando a Clarion solo un’ombra di calore sotto le spalle. La cosa peggiore era che la sofferenza stava lasciando spazio a una fastidiosa sensazione di lussuria.

«Cosa stai facendo?»

«Dopo la pillola lo zuccherino» rispose Moina.

Clarion la spinse, sbattendola di lato e si alzò. Lo stiletto era caduto, lo riprese.

Posso fare solo questo. Clarion affondò lo stiletto una volta all’altezza del cuore della prigioniera, una volta alla gola e infine glielo piantò nella tempia.

Voleva fare un altro giro, ma una mano con le unghie smaltate si chiuse e gli bloccò il polso.

«Cosa stai facendo?»

«Ottengo la fiducia del bersaglio. Può tornare in vita?»

Il sangue gocciolava a terra, insieme alla materia celebrale.

«No. Penso di no.»

Cosa hai fatto? La voce nella mente era disperata.

Se questo era il bersaglio principale avresti fatto entrare il supporto.

Silenzio. Moina continuava a stringerli il polso; gli occhi ocra lo fissavano; ogni tanto lanciava un’occhiata alla prigioniera. Continuava a spostare lo sguardo dall’uno all’altra.

Non sono riuscito a mandare fuori la demone e non hai mandato dentro la fatina quando mi ha attaccato. Conoscevi il rischio. Trasmise Clarion.

«Sto per andarmene. Tu rimani qua: è un ordine.» Clarion lasciò cadere a terra lo stiletto e si voltò, liberandosi dalla presa della demone. Il metallo tintinnò sulla pietra. «Quando arriva Belthar tienili tutti qua!»

Moina lo fissava: si stava di sicuro chiedendo se doveva ritenersi ancora vincolata. Clarion uscì dalla porta e la chiuse dietro di sé, senza aspettare il permesso.

Fece in tempo a scorgere una luce grigia che spariva nel corridoio.

Parla: luogo e obiettivo.

Ludum. Trasmise la voce. L’accesso del Ludum. Devi consegnare un sacco.

 

V

 

La luce dei bracieri davanti alla palizzata si riversava sulla piazzetta in pavé, creando un contrasto con la luminescenza soffusa della luce lunare. Altre luci si muovevano oltre il portone, sul ponte che portava alle mura interne del Ludum. La merlatura era assente in alcune zone, la stavano ancora riparando dopo l’ultimo assalto degli Inquieti.

Tra i due bracieri sostava un gruppo di cinque Bracchi. Solo due stavano fissando le ombre delle strade d’accesso, un altro si stava scaldando le mani al fuoco. Gli ultimi due erano seduti a un tavolo appoggiato al lato del portone e fissavano con aria intenta il rotolare dei dadi.

Cinque sono troppi. La fatina non può batterli.

Prova con la parlantina. Trasmise la voce.

È passato troppo tempo. Ormai avranno anche loro la mia descrizione.

Una guardia seduta sbatté la mano sul tavolo, mentre l’altro si lasciò andare sullo schienale, sorridendo. Gridò “ah ha” e indicò il compagno con aria vittoriosa. Il resto delle parole arrivò come un mormorio indistinto.

Un uccellino cinguettò da un tetto vicino, presto seguito da un altro: l’alba si stava avvicinando.

Non poteva superare il ponte. La zona era troppo scoperta.

Clarion si mosse con sicurezza attraverso i Vicoli del Condannato, attento a non calpestare i disperati che russavano ai bordi della strada.

Gli orfani gli avevano insegnato una strada per oltrepassare la palizzata e superare il primo fossato in modo da arrivare all’accesso del Ludum.

Clarion trovò il buco sotto la palizzata e strisciò oltre. Avanzò gattoni fino al bordo del fossato per prendere le misure: l’inclinazione della discesa era ripida, ma praticabile. Si appoggiò di sedere e si lasciò scivolare, raschiando il bordo argilloso: raggiunse il fondo assieme a rivoli di ghiaia. Il fossato era in secca, ma il terreno era comunque scivoloso; il fango gli arrivava alle caviglie, e ogni passo causava un rumore di risucchio.

Arrivò dall’altra parte e usò alcune radici per aiutarsi nella scalata fuori dal fossato.

Si issò all’esterno, accolto da una folata di vento fresco, e si chinò dietro un cespuglio. Alzò gli occhi per studiare il cielo notturno: era in campo aperto, senza gli edifici a offrire riparo. Secondo i suoi calcoli avrebbe dovuto vedere... trovata.

Una lucina grigia si muoveva nel cielo, troppo in fretta per essere una stella.

Eccolo là il suo guardiano. O meglio la fatina custode.

Vedi delle guardie?

Due davanti all’entrata. In alto la lucina si mosse, spostandosi per controllare meglio la zona. Altri quattro nell’atrio principale.

Era certo quindi. La voce poteva vederlo attraverso la fatina, o forse “era” la fatina.

I cinguettii continuavano. L’azzurro nel cielo annunciò l’alba che strisciava nell’orizzonte, spegnendo la luce delle stelle.

Clarion si concentrò sulla visione al calore. L’albero davanti era pieno di puntini rossi: uno stormo di uccelli; se li spaventava avrebbero attirato l’attenzione delle guardie.

Sono troppi. Serve un diversivo. Trasmise Clarion.

Cosa ci fanno le guardie nell’atrio?

No. Doveva escludere la fatina. I Dormienti incontrati finora lavoravano in coppia.

Il Teschio si sarà attivato da un pezzo ormai, per proteggere gli obiettivi sensibili.

Un brezza scosse l’erba e accarezzò la guancia di Clarion, portando l’odore del fieno dei campi vicini.

Complimenti. Trasmise la voce.

Sei stato tu a sporgere la denuncia segreta contro di me, vero? Per togliermi accesso alle risorse del Kleg.

Sei uno sveglio, Clarion. Ci sarai arrivato da un pezzo ormai.

Ma non potevi denunciare anche Belthar e il Teschio, o qualcuno avrebbe capito…

Invece quando hanno letto il tuo nome nessuno ha battuto ciglio. Se lo aspettavano tutti.

Per cosa mi avete denunciato?

Commercio di schiavi fuori età minima.

Gli orfani. Ecco cosa si guadagnava a nascondere le cose al Kleg. Un minimo sospetto e sblam: si finiva a gambe all’aria, trascinati per le caviglie. Clarion si massaggiò i fianchi: il punto dove gli era penetrata la scheggia gli faceva ancora male.

Il puntino luminoso si ingrandì, e il ronzio aumentò. La fatina planò sul fossato, lasciando una scia luminosa nell’aria; si fermò a una spanna dalla faccia di Clarion. Sbatteva le alette da farfalla, immobile a mezz’aria. Sollevò un braccio con in mano un sacchetto di cuoio.

Entra nell’atrio e lancia questo oltre le rune di protezione. Poi abbiamo finito. Letis vivrà e potrete avere tanti bei bambini.

Clarion aprì la mano sotto la fatina. Il sacchetto gli atterrò sul palmo: era ancora più leggero di quanto si aspettasse ed era largo meno di un pollice.

Avrai il tuo diversivo. Trasmise la voce.

Clarion chiuse la mano e osservò la fatina sollevarsi.

Chi siete? Come fate a comunicare oltre alle barriere del Ludum.

Sono lo spirito di tutte le donne che hai tradito, tornato per punirti!

Una delle guardie urlò: «Là!»

Sibili multipli: il rumore di spade sguainate. Dal cielo provenne un altro gemito più lungo e stridente: il richiamo di un falco.

Clarion si spostò verso il bordo del cespuglio, e sporse la testa per sbirciare: l’accesso era scoperto. Scattò, tenendo la schiena bassa; raggiunse il muro e si appiattì in una zona d’ombra. Le guardie erano intente a rincorrere la fatina; imprecavano senza badare all’arcata d’accesso.

Clarion s’infilò dentro, nell’atrio: la sala era in penombra e il clangore del combattimento all’esterno arrivava ovattato. Avanzò fino al bordo della linea runica. I bassorilievi scintillavano di luce viola.

«Voltati. Lentamente.» La voce era dietro di lui.

Clarion si voltò, lentamente. L’estremità metallica di un dardo rifletteva la luce viola delle rune e puntava direttamente al suo cuore.

«Puoi metterla via» disse Clarion.

«Ora mi seguirai, senza fare storie.» Belthar aveva in mano la balestra.

«Non avrei creduto alle cazzate sul commercio di bambini.»

«No. Ma il Teschio ha dato un ordine preciso.» Sulla mano sinistra Belthar portava un guanto, emetteva un lieve luminescenza color ametista.

«Moina?»

Belthar rimase in silenzio per alcuni secondi.

«Ho detto al Teschio che non ce ne sarebbe stato bisogno. Che mi avresti seguito senza fare storie.»

Clarion sorrise, una metà delle labbra sorrise di più rispetto all'altra.

«Una questione d’orgoglio quindi.»

«Chiamala come vuoi.»

«Belthar.» Clarion prese un lungo respiro. «Sono addestrato per queste cose, e non ho potuto contattare il Teschio.»

«Va bene. Ti credo.» I muscoli del braccio erano rilassati, le dita ferme sul grilletto. «Ora seguimi e andiamo a parlargli.»

«No» disse Clarion.

Gli occhi di Belthar si indurirono. L’avambraccio destro ebbe una contrazione, l’indice sul grilletto si tese. «Non esiste questa possibilità, Clarion.»

«Poco fa mi chiedevi di pianificare una soluzione.»

«Mi hai mentito, Clarion. Avevi detto che avevano denunciato anche me e il Teschio. Invece ora c’è il tuo piano contro un ordine diretto del Teschio.»

«Non ho mentito. Lo pensavo quando te l’ho detto.»

La luce sul guanto di Belthar aumentò per un istante, color ametista. Il falco nel cielo emise un richiamo acuto: era vicino.

«Bene. Ora le cose sono cambiate, Clarion.»

I rumori della lotta aumentavano, gli uomini urlavano e correvano. Il combattimento si stava spostando.

«Sì, sono cambiate. Ora per salvare Letis devo salvare Itis. Se perdo una perdo l’altra.»

Lo schianto di una spada contro il legno. Clarion poteva vedere l’albero e una lucina danzate che correva sui rami. La fatina cercava riparo nella foresta; poteva funzionare, almeno per un po’.

«Devi seguirmi.»

«No. Ho qui un messaggio.» Clarion sollevò un foglio stropicciato: era una lista di vecchi appunti, senza alcun senso. «Sono degli ordini per Taires.»

Doveva arrivare fino a quel punto? Mentire a un compagno?

La punta del dardo sembrava fissare Clarion, bramosa di sfondargli il cuore.

«Il messaggio contiene un rituale di fuga, io l’ho modificato. Non funzionerà.» Clarion ripiegò la pergamena. Inserì il piccolo sacchetto all’interno, coprendo il movimento con una mano, e accartocciò per bene il tutto.

«Se mi fermi capiranno di aver fallito e riproveranno.» Clarion si voltò verso la linea runica. «Se mi lasci fare Taires muore.»

Clarion caricò il braccio destro e mirò il cespuglio oltre le rune.

Itis o Letis. E giusto per aggiungere amaro stava fregando di nuovo Belthar.

Spara, Belthar. Spara e facciamola finita. Morto lui Letis se la sarebbe cavata… forse.

Gli tornarono in mente le immagini e il sangue. La faccia insanguinata di Letis. L’urlo, gli occhi spalancati. Il cuore che aveva smesso di battere.

Clarion si sentiva prosciugato, la lingua secca, le labbra screpolate. Il dardo non arrivava.

Lanciò.

La carta accartocciata volò nell’aria, si agitò per una folata di vento e poi cadde, atterrando nell’erba del cortile interno. Nel buio.

Clarion si rigirò. La balestra era puntata a terra. I lineamenti di Belthar erano contorti dall’ira; ma meglio quella piuttosto che un dardo piantato nello sterno.

La lucina passò davanti all’accesso del Ludum, dietro le spalle di Belthar; e schizzò via. La scia luminosa era intermittente, ondulava, probabilmente la fatina era ferita. Il ronzio sparì nella notte, seguito dalle strida del falco.

Missione compiuta. È stato un piacere lavorare con te.

 

VI

 

Clarion entrò nell’anticamera degli interrogatori con le mani legate dietro la schiena. Due guardie lo tenevano per i gomiti, e Belthar lo controllava da dietro.

Moina aveva abbandonato il grembiule sporco di sangue su uno degli sgabelli; la demone indossava il vestito rosso e aveva le mani appoggiate sui fianchi. Sorrideva, mostrando i denti appuntiti.

Clarion fissava il pavimento, senza incrociare lo sguardo con nessuno. Vedere il lembo di pelle umana ancora abbandonato sullo sgabello gli causò un attacco di vertigine e il cuore riprese a martellare. Strinse i denti: non poteva ancora lasciarsi andare.

C’era un tavolino che prima mancava, con sopra Letis, sdraiata. Raglio le teneva la mano con il braccio sano. L’altro pendeva inerte: il polso aveva assunto un colorito bluastro.

«Hai un odore strano» disse Moina. «Puzzi di fatina.»

Belthar avanzò verso la porta della camera dove prima interrogavano Sarabi, e studiò l’interno. Il guanto di cuoio scricchiolò mentre apriva e chiudeva il pugno.

«Voi. Andatevene» disse Belthar.

Le guardie sbatterono i tacchi contro il pavimento e il pugno chiuso contro il petto; fecero dietrofront, abbandonando Clarion a due passi dalla porta interna. Immobile.

Belthar prese il dito del guanto con l’altra mano, tirò fino a toglierlo e lo appoggiò sullo sgabello, di fianco al lembo di pelle. Rimaneva a fissare Clarion che si rifiutava di ricambiare lo sguardo.

Moina si avvicinò, prese Belthar a braccetto e lo allontanò, bisbigliandogli qualcosa all’orecchio.

I due si erano spostati per coprire l’uscita da dove erano sparite le guardie.

«Sì lo so: vuole evocare il Teschio.»

Continuarono a bisbigliare, ma Clarion sentiva i loro sguardi sulla schiena.

«Bah.» Clarion si rivolse a Raglio e a Letis. «Lei se ne va. Sollevala e portala fuori.»

«Aspetta, aspetta piccioncino» disse Moina alle sue spalle. Dal rumore della voce poteva presumere che la demone non si fosse spostata dall’uscita. La via era bloccata.

«Tirala su e iniziate a muovervi» disse Clarion a Raglio, per poi voltarsi verso assassino e demone.

Moina aveva la spalla appoggiata alla porta, si stava leccando le labbra e non toglieva gli occhi i dosso a Clarion. Belthar lanciò uno sguardo di sfuggita a Letis: sembrava molto più indeciso.

«Lei non ci serve» disse Clarion.

«Se dici così vuol dire il contrario.» Moina sfoggiò di nuovo il sorriso pieno di denti affilati.

«Clarion?» La voce di Letis era debole.

I passi della donna strusciavano sul pavimento. Raglio aveva aiutato Letis ad alzarsi e i due stavano avanzando. Li sentiva avvicinarsi.

«No. Non abbiamo bisogno di lei» disse Belthar. «La lasciamo andare. Ora. E finiamo con...»

«Lo hai detto al Teschio?» Moina sbatté il piede per terra. «Ha approvato?»

Belthar fissò Clarion, in attesa. Il bastardo voleva pure suggerimenti.

«Non posso resistere a un demone» disse Clarion. «Non vi servono altre leve.»

«Ma a me serve Letis! Con lei posso farlo parlare più...»

«No.» Belthar si voltò ad affrontare Moina.

Clarion lo fissò. Sì, non c’era dubbio. Belthar voleva difendere Letis: la avrebbe allontanata a tutti i costi, con o senza l’intervento di Clarion.

Il cuore riprese a martellare. Era da solo quindi.

Belthar bisbigliò qualcosa nell’orecchio di Moina, aveva l’aria di essere arrabbiato: probabilmente avevano già discusso dell’argomento. Moina si sarebbe lamentata, ma la demone avrebbe eseguito gli ordini alla fine. Non poteva rischiare.

Clarion sospirò quando sentì le dita di Letis che gli accarezzavano il collo; si girò, abbandonandosi tra i capelli biondi della donna. Puzzavano ancora di merda e di fogna.

Sporse la testa e fissò Raglio negli occhi, abbassò la voce fino a un sussurro.

«Seguimi e chiudi il lucchetto. Avrai pochi istanti.»

Raglio sollevò le sopracciglia, ma rispose con un cenno affermativo.

«Lei deve rimanere qua!» Lo strillo di Moina aveva una vena di isteria.

Clarion diede una spallata a Letis. La donna finì lunga distesa dentro la stanza degli interrogatori, sbatté i gomiti contro la pietra per attutire la caduta.

Clarion le rovinò di fianco; evitò di caderle sopra, ma atterrò di faccia sul pavimento, le mani legate alla schiena.

Qualcuno entrò dietro di lui. La porta si chiuse e il lucchetto si fissò con uno schiocco metallico.

Clarion si alzò in ginocchio.

«Liberami dalle corde.»

Raglio prese un coltello dal tavolino, rovesciando il vassoio che finì sul pavimento insieme al resto degli strumenti. Si portò alle spalle di Clarion e iniziò ad armeggiare con il braccio buono.

Il metallo era freddo e ogni colpo gli sfiorava la pelle, penetrando sempre di più nella corda. L’ultimo taglio affondò del tutto: la lama gli graffiò le carni e le corde caddero sul pavimento.

«Che cazzo stai facendo, Cla?» Belthar stava battendo sulla porta. Dal rumore erano solo pugni o calci: il legno avrebbe retto. «Apri subito.»

Clarion fece una smorfia e si massaggiò i polsi, senza badare alla striscia di sangue sull’avambraccio, non era una ferita profonda.

Aiutò Letis ad alzarsi.

«Cosa succede?» La donna era debole, non faceva resistenza. Sembrava così fragile.

La aiutò a sedersi: l’unica sedia nella stanza era sporca di sangue e coperta di catene. Clarion fece attenzione ad appoggiarla. Attenzione a un qualsiasi movimento. A una resistenza, a uno sguardo diverso dal solito. Niente.

La donna si abbandonò sulla sedia.

Clarion si girò, si chinò all’altezza di Raglio e gli prese il pugnale dalle mani. La lama era sporca di sangue. La sedia era sporca di sangue. Tutto lì dentro era sporco.

Era lui. Doveva essere lui.

Raglio lo fissava, in attesa. Gli occhi del ragazzo erano umidi; aveva l’espressione di chi vuole essere rassicurato. Ma mostrava anche l’ombra della paura.

La procedura. Doveva seguire la procedura.

Clarion gli prese il polso del braccio rotto. E glielo torse dietro la schiena.

Il bambino lanciò un urlo straziante: si impresse nella mente di Clarion, fondendosi insieme a quello che aveva sentito nelle fogne da Letis.

Clarion gli fece uno sgambetto e gli sbatté la faccia a terra.

«Aaargh, no ti prego.»

Clarion appoggiò la gamba sulle ginocchia del ragazzo per non farlo scalciare.

«Cosa ho fatto? No. No.»

Clarion usò il coltello per strappare la veste del bambino e aprirla in due. Sotto la schiena era nuda. Coperta di cicatrici. Frustate.

«No. Fermo. Basta.» Il ragazzo deglutiva e sbatteva il braccio sano per terra.

Clarion appoggiò un gomito sulle spalle del ragazzo, per tenerlo fermo. E spinse il coltello nella carne: affondò di poco.

«Nooooooo.» Tagliò: un’incisione lungo una spanna. Il rumore della pelle che si lacerava era nauseante.

Il sangue scorse sulla schiena di Raglio. La luce del braciere si rifletteva sulla carne rossa.

Ma Clarion doveva essere sicuro.

«No Syr, ti prego, non ho rotto io la tua anatra.» Raglio stava piangendo, delirava.

Clarion doveva essere sicuro.

Lasciò il braccio e schiacciò il bambino con il proprio peso, per tenerlo fermo, portò le unghie sull’incisione. Doveva tirare... controllare...

«Basta. Non è lui.»

Clarion lasciò andare il ragazzo.

«Continua, continua!» la voce di Moina da fuori.

«Apri la porta, cazzo.» Belthar.

Il bambino si allontanò, gattonando con un braccio solo; il volto sconvolto dalle lacrime. Si portò in un angolo della stanza, di fianco agli strumenti da tortura, e lì si rannicchiò, stringendosi le ginocchia con il braccio sano. Cominciò a dondolarsi avanti e indietro.

Letis lo stava guardando, ogni traccia di debolezza era sparita, ma rimaneva immobile sulla sedia. Gli occhi erano accesi, attenti.

«No. Non sei tu.» Clarion scosse la testa. Letis era seduta sulla sedia dove prima era seduta Sarabi. Settimane e settimane di tortura. Mesi, o anni. Ecco cosa diceva la procedura.

La testa gli pulsava.

«Cosa faremo ora, Clarion?»

Quando Clarion si avvicinò Letis rimase immobile. Le prese il braccio e lo appoggiò gentilmente sul bracciolo: lo assicurò con la catena.

La donna lo fissava, con sguardo triste, senza opporre resistenza.

Clarion si occupò dell’altro braccio. Poi si chinò, serrando i ceppi alle caviglie della donna.

«È tutto inutile.»

Le spinse indietro la testa e chiuse il collare di ferro; si fissò con un clangore metallico.

Doveva esserci un’altra soluzione, un’altra possibilità.

Non riusciva a pensare. Le orecchie gli rimbombavano a ogni battito del cuore. Il braciere sembrava più caldo, il fuoco si era vivacizzato. Anche le torce si agitavano alle pareti.

«Tu non sei Letis.»

«Io sono Letis.»

Clarion le appoggiò le mani sui fianchi, e la tastò; trovò un fazzoletto in una tasca, una essenza profumata in un’altra. Nient’altro.

Eppure doveva esserci: passò le mani sul corpo, sulla schiena, sotto il morbido sedere, sul seno... Quante volte l’aveva accarezzata in tutti quei mesi? No. Si passò una mano in faccia, per asciugarsi il sudore. No, quella non poteva essere Letis.

E infine eccolo. Al fianco sinistro. In una tasca nascosta.

Un biglietto con il sigillo rosso, una maschera impressa nella cera. Il sigillo, il simbolo del Kleg, era intatto. Clarion lo ruppe, la aprì; e la lesse. La strinse tra le dita. La carta si accartocciò con un crepito leggero.

Quel messaggio era per Belthar. Aveva l’ordine di catturare Clarion. «Hai intercettato la lettera, e hai mandato Raglio ad avvisare Belthar. Come?»

Letis prese un respiro, e fissò a terra. «Che importanza ha ormai?»

«Ma certo.» Clarion prese una delle pinze da terra. La stanza sembrava riempirsi di puntini rossi. «Siete mutaforma! È così che siete riusciti a entrare sia nel Kleg che negli Inquieti!»

«Clarion, fermo. Io sono Letis.»

«Ti sei spacciata per me! E prima ti sei spacciata anche per il quartier mastro, per spostare Sarabi al sole! Confessa!» Clarion si avvicinò e prese una delle dita della donna. La collocò tra le pinze e strinse. Strinse.

Letis tese i muscoli del collo e chiuse gli occhi. Ma non urlò.

«Sì. Ho fatto quelle cose, ma sono Letis!»

Clarion scosse la testa. Gli stavano salendo le lacrime agli occhi.

«Menti, tu non lo sei!» Prese un’altra unghia e la strappò.

«Ti ho scelto fin dall’inizio.» La donna emise un singulto di dolore.

Clarion la zittì piantandole la pinza in bocca, tra i denti. Strinse e strappò un incisivo. Linee di dolore si formarono intorno agli occhi e alle labbra, ma la donna non urlava.

«Sono io che ti ho indicato a Taires!»

Clarion scagliò la pinza per terra. Rimbalzò sul pavimento e finì contro la parete. Non poteva essere vero, ma non gli venivano in mente le domande giuste.

Raglio lanciò un gemito e si girò dall’altra parte; aveva la testa verso il muro, come se si rifiutasse di guardare.

«Prima hai preso il posto del quartier mastro! Poi lo hai ucciso!»

Letis scosse la testa, il dente mancante era un buco vermiglio che macchiava i denti attorno; e il rivolo di sangue le gocciolava sulle cosce.

«Noi non uccidiamo come voi.»

La clavicola. Clarion ricordava che Belthar la riteneva un bersaglio.

Clarion prese un pugnale a terra e affondò, all’altezza del nervo della spalla. Girò da una parte e rigirò dall’altra.

«YYaaargh.»

Stavolta aveva urlato.

Clarion si asciugò le labbra. Stava sbavando e la nebbia rossa si infittiva. Aveva caldo, molto caldo.

«La avete rapita: avete ucciso anche lei!»

«No… il quartier mastro... no.» La voce di Letis era acuita dal dolore. La voce che sentiva le notti prima di andare a letto, che lo prendeva in giro; che tutti i giorni gli chiedeva com’era andata... non voleva farle male.

Clarion ritirò il pugnale, facendo zampillare il sangue sul terreno.

Sotto la pelle spuntava il verde. Le squame.

No. Quella non era Letis.

«Era già malato. Non lo abbiamo ucciso. Noi… noi rispettiamo la vita.»

Qualcuno all’esterno continuava a urlare. Clarion li sentiva come brusio di sottofondo, non comprendeva più le loro parole.

«Nelle fogne. Il malore… era una finta!» Clarion si girò e diede un calcio al tavolo, ribaltandolo contro la parete. I gemiti di Raglio aumentarono, si stava dondolando sempre più velocemente. Mormorava qualcosa; altro brusio nel brusio.

«Lasciala stare.» Belthar lo stava urlando da fuori.

Lasciarla stare? E per cosa? Per lasciarla a Moina?

Clarion si appoggiò con la schiena alla parete, annaspante. Gocce di sudore gli cascavano dalla fronte. Il mondo non sembrava particolarmente stabile. La nebbia rossa era dappertutto.

«Ci sono cose più importanti di noi» disse Letis.

Clarion digrignò i denti. Letis era morta. Come il quartiermastro.

Tutto il mondo fu sommerso da una cortina scarlatta. La nebbia girava intorno a lui in un caleidoscopio di tonalità rossastre.

Le grida di Raglio, le urla di agonia di Letis, tutte i lamenti che aveva sentito si unirono in una cacofonia di suoni. Si mischiarono a pianti, a suppliche, a risate e singhiozzi.

Dalla porta arrivavano delle scintille che schiarirono la visuale di Clarion. Partivano dalle estremità e schizzano nella stanza, causando una vibrazione.

Clarion si accorse di avere in mano un dito. Il resto delle dita di Letis erano spezzate in due punti e si accartocciavano all’indietro in posizioni innaturali. Per terra c’era un orecchio.

Letis stava urlando qualcosa, ma Clarion non ascoltava. Erano solo altre menzogne.

Avrebbe detto qualsiasi cosa. Ma aveva perso così tanto sangue. Come faceva a essere ancora viva?

No. Non poteva smettere. Doveva trovare altri indizi. Scoprire la verità.

Il rosso tornò a offuscargli la vista. Si sentiva come svenuto; galleggiava in un liquido rosso, caldo e accogliente. Appiccicoso. Lo proteggeva dagli intrighi e dalle menzogne.

Basta menzogne. Basta basta basta.

La stanza divenne improvvisamente fredda. La nebbia si attenuò.

Clarion rimase in piedi, barcollante.

La testa di Letis cadde indietro. Rotolò per terra, staccata dal corpo e si fermò con il naso appoggiato al muro. Rimbalzò e si girò verso di lui.

Clarion aveva in mano un seghetto. Aveva impiegato parecchio a morire.

Molto più di Sarabi.

Era diventata sempre più fredda…

La porta cadde all’interno della stanza con un tonfo assordante. Sollevò polvere e sangue.

Clarion sussultò dalla sorpresa e guardò fuori.

Belthar entrò. Gli si portò davanti, gli appoggiò le mani alle spalle e lo spinse contro il muro. Dietro di lui c’erano altre persone.

«Ascolta. Mi senti?.»

Clarion aprì la bocca, e agitò la testa. Istupidito.

Stava fissando oltre Belthar. Una donna bionda lo stava scrutando dalla porta, in piedi, sana, salva e dallo sguardo preoccupato. Un’allucinazione.

Clarion sorrise da ebete, ed emise un risolino.

Belthar gli tirò altri due ceffoni e lo scosse.

Clarion boccheggiò dal dolore. Come mai aveva così freddo?

L’allucinazione non se ne andava.

«Era una mutaforma. Si è fatta ammazzare.»

Clarion strabuzzò gli occhi e Belthar gli tirò un altro ceffone.

Il dolore lo riportava alla realtà. La realtà era una stanza con un cadavere senza testa e le interiora che pendevano.

«Hai capito? Letis è viva. È viva. L’abbiamo portata qua. Perché non ti sei fermato?»

Clarion spinse il compagno per avere spazio.

Fissò la vera Letis, cercando di non guardare la faccia identica, a terra.

«Ha usato il calore per snervarlo.» La voce di Moina. «Con successo pare.»

Il volto di Letis, della Letis viva, era sconvolto; spostava lo sguardo da Raglio alla testa mozzata.

Clarion voleva dire qualcosa. Aprì la bocca, ma le ginocchia erano diventate deboli. Cadde per terra. Rimase a gattoni nel sangue; e sentì qualcosa spingere dall’interno. Vomitò di fianco alle caviglie bloccate dai ceppi, vicino al cadavere con la testa mozzata.

Lampi di luce scura scoppiavano da tutte le parti, spegnendo del tutto la sua visione.

Svenne, cadendo di faccia nel sangue e nel vomito.



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